In un Paese come il
Brasile dove l’asfaltante progressismo di Lula ha completamente
eliminato il ceto medio, ci sarebbe bisogno di molto più
cinema rispetto a quello che, almeno il sottoscritto, ha potuto
visionare negli anni (i suggerimenti sono ben accetti). In attesa di
portate più sostanziose, per colmare la latitanza si può
anche sbocconcellare con A Fábrica (2011) di Aly
Muritiba, cortometraggio che fa leva su un effetto automatico della
povertà: la prigione. La tematizzazione del carcere, e
dell’uomo obbligato a vivere in tale ambiente, sfocia in un taglio
che nella settima arte odierna è la routine, la ricerca
ostinata di un realismo comporta la pedissequa marcatura degli
attori in scena, una soffocante stretta sui corpi che qui, vista
l’ambientazione, non risulta stonata (Muritiba è così
interessato al mondo-galera che nel 2013 partorirà un altro
film girato in un penitenziario: Pátio). Fiorisce,
allora, un frutto piccolo finanche acerbo ma con una veste formale
che si guadagna comunque la dignità minima per farsi seguire
fino al suo quindicesimo minuto.
Scorrendo il ricco
palmarès di A
Fábrica salta all’occhio il quasi accesso alla magica
cinquina per la vittoria dell’Oscar, non si tratta di una bazzecola
perché tutti sappiamo che se un prodotto cinematografico
giunge alle porte di Hollywood non ci sarà pressoché
nulla di interessante per degli infaticabili cinefili, così la
chiusura da family-drama potrà risultare commovente per i
multisala-friendly e, viceversa, urticante per coloro i quali
rifuggono ogni eccessiva intensificazione sentimentale. Accogliendo
l’ammissibilità di ambedue le posizioni, cerco di trovare un
approdo sicuro nel summenzionato contegno generale; già il
fatto che non si sbandieri la condizione del prigioniero fa
acquistare dei punti, inoltre la compostezza diffusa si riverbera (o
si genera) anche dall’umanità in scena con l’anziana
mamma, esempio principe di quanto vado dicendo, che con uno
stratagemma è capace di sterrare almeno una valida lettura (la
maternità della vecchiaia: partorire un cellulare dentro un
lurido cesso per aiutare il proprio figlio), anzi due (la paternità
di un detenuto: la menzogna appesantisce più della clausura).
Il quadro è questo e al netto della piaga sentimentalistica, un’afflizione che riguarda la maggior parte degli oggetti narrativi (con qualunque chiave di volta: il colpo significante
è un obbligo, ma quanto vale invece un’indefinibile
apertura?), A Fábrica si rivolge a voi con umiltà
e un rispetto accettabile per la vostra intelligenza, bistrattarlo
troppo no, dài.
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