Il rapporto tra Mendoza e
la Francia si è fatto via via sempre più intimo: già
da Service (2008) in poi il regista filippino aveva potuto
usufruire dei danari messi a disposizione dalla Swift Productions,
casa di produzione francese, successivamente il feeling con i cugini
d’oltralpe si è consolidato grazie al passaggio a Cannes di
Kinatay (2009) con annesse dichiarazioni tarantiniane che
hanno agito da cassa di risonanza. Il percorso di Mendoza, per una
legge non scritta che riguarda molti registi asiatici, era destinato
ad incontrarsi con la domanda occidentale di un film calibrato e
pensato per essere digerito anche da chi era a digiuno di cinema
mendoziano, ecco Captive (2012) allora, un lavoro che ha alle
spalle una cooperazione tra diverse società europee (spicca
l’istituzione transalpina ARTE) e che, soprattutto, affronta una
questione molto vendibile nel vecchio continente come quella del
terrorismo islamico. A metterla così si potrebbe pensare che
Mendoza abbia venduto la propria anima registica in cambio di sonanti
€uro, e, ad essere onesti, non sembrerebbe un’affermazione così
campata in aria, ma rimanendo ligi alla sua buona fede possiamo
trovare una continuità nel settore stilistico perché ci
troviamo nuovamente calati in un set tipicamente di Mendoza. Come già
avevo avuto modo di scrivere, la missione del filippino è
quella di assottigliare fino alla dissoluzione quella membrana posta
tra realtà e finzione. Preso atto che tale membrana non può
essere eliminata, almeno non dalla visione di Mendoza, il regista in
certi frangenti, ma qui un po’ meno, ha saputo gabbare lo
spettatore trascinandolo (si fa per dire) corporalmente dentro al
film. I mezzi usati non sono mai stati, diciamo, granché
ortodossi, tutta camera a mano con qualche balbuzie nel montaggio (in
Captive quando uno dei guerriglieri si prende un rimbrotto
dalla neo-moglie Mendoza indugia in modo dilettantesco sullo sguardo
palesemente spaesato dell’attore), ma comunque quel tanto che basta
da risultare efficace nell’ordine delle percezioni.
Tuttavia l’aspetto a
mio avviso più interessante dell’opera non è tanto la
coerenza formale di Mendoza, quanto il processo di storicizzazione
che ha effettuato lavorando su un episodio di cronaca realmente
accaduto. In sostanza Mr. Brillante ha il merito di aver portato a galla
attraverso il cinema un fatto tragico ma esplicativo di come la jihād
ha, ed abbia avuto, contorni liquidi e pandemici, se poi pensiamo che
il periodo storico in cui il gruppo di terroristi sequestra i turisti
è appena antecedente all’attentato delle Torri Gemelle,
allora la storia si fa quasi documento antropologico che ci mostra
gli albori di un movimento che attualmente ha messo sottoscacco gran
parte dei paesi cosiddetti civilizzati, e nel commando di Mendoza,
non so se volutamente o meno, ma certe volte impacciato o per meglio
dire impreparato alla guerriglia, rintracciamo alcuni capisaldi
universalmente riconosciuti dell’islamismo terrorista, e quindi
fanatismo religioso, arricchimento attraverso il riscatto degli
ostaggi, sovvenzioni belliche per conto di individui arabeggianti. Ma
in tutto ciò il cinema c’entra poco, perché difatti
in Captive il cinema latita. È vera la persistenza di
un discorso protrattosi di film in film fino a quello sotto esame, ma
al contempo l’allontanamento di Mendoza dal centro della sua
carriera, quella povertà di tutto (materiale e spirituale)
delle Filippine, fa sedere il proprio lungometraggio in un’area
che, appunto, ha valore perlopiù nel campo informativo, mentre
in quello dello spessore artistico si poteva fare
meglio. A prescindere dalla struttura di Captive che è
schematicamente ripetitiva (una volta effettuato il rapimento vediamo
l’alternanza tra sommosse dell’esercito di Stato e noiosette
interazioni ostaggi/aguzzini), è proprio quell’impianto
realistico a giocare contro Mendoza e a non poter ambire a null’altro
che il “coinvolgimento”, perché mi pare chiaro, adesso,
che tale approccio non avendo dentro di sé i connotati per
lavorare in profondità è obbligato ad operare
sull’orizzontalità degli eventi, sulla loro immediatezza,
appena si tenta un accenno che procede in parallelo si rischia la
frittata (la stigmatizzazione della dicotomia vita/morte con
l’assalto in ospedale e la nascita, ovviamente reale, di un
neonato), sicché non rimane che l’apparato cronachistico nel
quale non possiamo entrare, né lui può entrare dentro
di noi. Ecco il punto: Captive non ci permette di
compenetrarci a vicenda, semplicemente perché non è in
grado di farlo.
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