martedì 29 dicembre 2015

Captive

Il rapporto tra Mendoza e la Francia si è fatto via via sempre più intimo: già da Service (2008) in poi il regista filippino aveva potuto usufruire dei danari messi a disposizione dalla Swift Productions, casa di produzione francese, successivamente il feeling con i cugini d’oltralpe si è consolidato grazie al passaggio a Cannes di Kinatay (2009) con annesse dichiarazioni tarantiniane che hanno agito da cassa di risonanza. Il percorso di Mendoza, per una legge non scritta che riguarda molti registi asiatici, era destinato ad incontrarsi con la domanda occidentale di un film calibrato e pensato per essere digerito anche da chi era a digiuno di cinema mendoziano, ecco Captive (2012) allora, un lavoro che ha alle spalle una cooperazione tra diverse società europee (spicca l’istituzione transalpina ARTE) e che, soprattutto, affronta una questione molto vendibile nel vecchio continente come quella del terrorismo islamico. A metterla così si potrebbe pensare che Mendoza abbia venduto la propria anima registica in cambio di sonanti €uro, e, ad essere onesti, non sembrerebbe un’affermazione così campata in aria, ma rimanendo ligi alla sua buona fede possiamo trovare una continuità nel settore stilistico perché ci troviamo nuovamente calati in un set tipicamente di Mendoza. Come già avevo avuto modo di scrivere, la missione del filippino è quella di assottigliare fino alla dissoluzione quella membrana posta tra realtà e finzione. Preso atto che tale membrana non può essere eliminata, almeno non dalla visione di Mendoza, il regista in certi frangenti, ma qui un po’ meno, ha saputo gabbare lo spettatore trascinandolo (si fa per dire) corporalmente dentro al film. I mezzi usati non sono mai stati, diciamo, granché ortodossi, tutta camera a mano con qualche balbuzie nel montaggio (in Captive quando uno dei guerriglieri si prende un rimbrotto dalla neo-moglie Mendoza indugia in modo dilettantesco sullo sguardo palesemente spaesato dell’attore), ma comunque quel tanto che basta da risultare efficace nell’ordine delle percezioni.

Tuttavia l’aspetto a mio avviso più interessante dell’opera non è tanto la coerenza formale di Mendoza, quanto il processo di storicizzazione che ha effettuato lavorando su un episodio di cronaca realmente accaduto. In sostanza Mr. Brillante ha il merito di aver portato a galla attraverso il cinema un fatto tragico ma esplicativo di come la jihād ha, ed abbia avuto, contorni liquidi e pandemici, se poi pensiamo che il periodo storico in cui il gruppo di terroristi sequestra i turisti è appena antecedente all’attentato delle Torri Gemelle, allora la storia si fa quasi documento antropologico che ci mostra gli albori di un movimento che attualmente ha messo sottoscacco gran parte dei paesi cosiddetti civilizzati, e nel commando di Mendoza, non so se volutamente o meno, ma certe volte impacciato o per meglio dire impreparato alla guerriglia, rintracciamo alcuni capisaldi universalmente riconosciuti dell’islamismo terrorista, e quindi fanatismo religioso, arricchimento attraverso il riscatto degli ostaggi, sovvenzioni belliche per conto di individui arabeggianti. Ma in tutto ciò il cinema c’entra poco, perché difatti in Captive il cinema latita. È vera la persistenza di un discorso protrattosi di film in film fino a quello sotto esame, ma al contempo l’allontanamento di Mendoza dal centro della sua carriera, quella povertà di tutto (materiale e spirituale) delle Filippine, fa sedere il proprio lungometraggio in un’area che, appunto, ha valore perlopiù nel campo informativo, mentre in quello dello spessore artistico si poteva fare meglio. A prescindere dalla struttura di Captive che è schematicamente ripetitiva (una volta effettuato il rapimento vediamo l’alternanza tra sommosse dell’esercito di Stato e noiosette interazioni ostaggi/aguzzini), è proprio quell’impianto realistico a giocare contro Mendoza e a non poter ambire a null’altro che il “coinvolgimento”, perché mi pare chiaro, adesso, che tale approccio non avendo dentro di sé i connotati per lavorare in profondità è obbligato ad operare sull’orizzontalità degli eventi, sulla loro immediatezza, appena si tenta un accenno che procede in parallelo si rischia la frittata (la stigmatizzazione della dicotomia vita/morte con l’assalto in ospedale e la nascita, ovviamente reale, di un neonato), sicché non rimane che l’apparato cronachistico nel quale non possiamo entrare, né lui può entrare dentro di noi. Ecco il punto: Captive non ci permette di compenetrarci a vicenda, semplicemente perché non è in grado di farlo.

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