Virus, terremoti,
esplosioni, attacchi nucleari: il mondo è agli sgoccioli ma a
Robinson interessa soltanto ritrovare la sua Laetitia.
Pressoché
disinteressati alle questione apocalittiche, i fratelli Larrieu,
inseparabili compagni di direzione, puntano tutto sugli arzigogoli
sentimentali di Robinson (un sempre stralunato Mathieu Amalric) il
quale da par suo non si cura affatto delle catastrofi che sembrano
affliggere il pianeta; c’è una voluta incongruenza tra i
richiami fantascientifici da “fine dei giorni” e gli scenari in
cui i Larrieu ambientano il proprio film, tutti paesaggi splendidi:
né le spiagge di Biarritz né i ridenti paesi
spagnoli oltre i Pirenei rappresentano i tipici palcoscenici pre o
post-atomici (a onor del vero qui e là vengono piazzate strane
morti, esplosioni, scosse sismiche, ma sono tutti fatti isolati),
esattamente come è il protagonista che li calca: letteralmente
immerso nella turbinosa storia d’amore che gli ha fatto perdere la
dignità, la moglie e la mano destra. Questa sua (dis)attenzione che
ha un riverbero calligrafico con la scrittura del diario personale,
porta Robinson a fregarsene altamente della realtà che lo
circonda, il che segna inesorabilmente uno scatto verso il surreale
da parte della pellicola che non concede margini di compromesso: o le
varie situazioni grottesche che si susseguono terranno viva
l’attenzione, oppure il sfilacciato errare di Robinson risulterà
vacuo nonché un filino presuntuoso.
Finché il registro
è suddiviso dal pingpong passato-presente Les derniers
jours du monde (2009) regge sì e no con disinvoltura
perché l’alternanza fra il prima e l’ora dà un
percorso “sensato” a quanto accade sullo schermo, l’opinione è
che l’odissea di Robinson sia equipollente a quella che sta vivendo
il mondo e che la sfuggente femme fatale sia una sorta di idea
di bene o vattelapesca che una volta raggiunta, riavuta, riamata,
possa mitigare i dolori del cuore, e quindi è abbastanza
divertente (mmm) essere testimoni degli eventi che hanno reso
Robinson il tipico zerbino maschile, ma questo equilibrio dura fino a
un certo punto, e precisamente al punto in cui abbandonati i
flashback (l’ultimo è quello canadese) ci si butta
esclusivamente nell’adesso dell’uomo, e il suo presente diventa
una sequenza di scenette scollate dalla forma reiterante: ogni
persona che gli si avvicina (l’ex amante del padre, l’ex moglie,
il migliore amico, la figlia del migliore amico) lo ama, senza essere
contraccambiata (ad esclusione della moglie). Ci si perde, in
sostanza, nell’episodio, nell’isolata circostanza dove il fil
rouge-Laetitia si fa sempre più tenue (nonostante sia
prevedibile e necessario il ricongiungimento conclusivo) e sempre più
impoverito di senso.
Dovevano chiudere prima i
fratelli Larrieu, il timing è troppo ampio per poter
mantenere una coerenza interna, l’eccessivo girovagare non trova
l’integrità filmica e, semplicemente, si sbraca
riprovevolmente con propaggini di cui non si sentiva la necessità:
il suicido nel teatro e del tenore, il castello boccaccesco. Alla
fine la corsa nudista per le vie di Parigi è un contentino
insoddisfacente.
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