Che cos’è la
solitudine? Lo spazio solitario tra due rocce svanisce quando viene
riempito da una ragnatela?
(William T. Vollmann –
La camicia di ghiaccio, Alet Edizioni; 2007)
Sette opere di
misericordia (2011), debutto nella fiction per i due
gemelli torinesi Gianluca e Massimiliano De Serio, è un film
che vive nella contraddizione tra il narrato e la narrazione. È
un’incompatibilità proficua perché grazie ad un
impianto che non spartisce quasi nulla con la maggior parte del
cinema da sala italiano abbiamo sul piatto un tema sempre attuale
come quello dell’immigrazione e una corrispettiva divulgazione
assiderata nel minimalismo dei due registi. Quindi, è vero che
avendo come protagonista Luminita, una giovane moldava che sopravvive
in una baraccopoli, dobbiamo confrontarci con storie di
emarginazione, degrado (più morale che materiale), povertà
e via dicendo, ma i De Serio lasciano l’enfasi agli altri
preferendo un’austerità intransigente, producendo effetti e
forse perfino affetti nello spettatore: si prova pena, si prova pietà
di fronte agli uomini di un’opera che trattiene e sotterra tutto,
difatti i possibili picchi drammatici vengono silenziati (alcune
sequenze si pongono al di qua del vetro/finestra, ovattando o
annullando lo strazio che vediamo al di là) o estromessi in toto
dal corpo film (il rapimento del neonato), questo comporta un impegno
notevole da parte nostra, ma non è uno sforzo vano, è
proprio nella non-parola che si possono ascoltare i discorsi più
densi, così come nel non-vedere stazionano le immagini più
penetranti. Ergo: il dramma dell’immigrato, anche se lavorato nella
pietra fredda, arriva.
E arriva perché
dal momento in cui il bimbo sparisce dalla casa, i De Serio allargano
la prospettiva del loro film che non riguarda più soltanto il
trattato sull’attualità, si sale per giungere al problema
patologico dell’emarginato, a prescindere dalla sua estrazione
sociale: la solitudine. Il cinema, in merito, ha partorito figli su
figli che si sono cimentati nell’illustrazione di tale condizione,
per cui è chiaro che non ci troviamo al cospetto di
innovazioni straordinarie, comunque sia i De Serio, che in
un’intervista citano Tsai Ming-liang come punto di riferimento
(link), ed è risaputo che pochi come il taiwanese hanno saputo
incuneare il cinema nell’universo dell’Uomo Solo, non perdono di
credibilità pur agendo in territori ampiamente calpestati. È
interessante l’evoluzione del rapporto tra Herlitzka (non si perde
mai occasione per apprezzarlo) e la ragazza, se una prima parte è
caratterizzata da una certa brutalità (sempre morigerata),
nella seconda emerge quell’humanitas
capace di congiungere le due anime reiette. L’incontro si illumina
di misericordia: il prendersi
cura reciprocamente è il vero atto compassionevole, e pare
ricordarlo anche il finale con il ragazzino che medicando le ferite
di Luminita permette al film di terminare in un’accecante
inquadratura di luce bianca, l’esatto opposto dell’ora e mezza
precedente permeata dal grigiore metropolitano.
Non
esente da piccoli difetti, rinvenibili a mio avviso in alcuni rivoli
tramici (il modo indisturbato con cui Luminita si aggira
nell’ospedale; la “fortuna” di scegliere a caso un uomo davvero
solo al mondo) che spiccano a causa dell’impianto estremamente
realista, Sette opere di misericordia è un
esponente di cinema nostrano che si pone a latere, non un
lavoro inedito, nemmeno indimenticabile probabilmente, ma il solo
sapere della sua esistenza e del percorso registico che ci sta dietro
lo rendono meritevole di considerazione.
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