martedì 8 dicembre 2015

De zee die denkt

Opera teoretica fino allo spasimo: De zee die denkt (Il mare che pensa, 2000) applica il ludus alla sua ricerca: siamo in un territorio pericoloso perché Gert de Graaff fa del metacinema con la “solita” missione di svelare il dispositivo nascosto, e ce lo suggerisce il prologo dove il risveglio dell’uomo si dimostra nient’altro che un set con operatore e regista. Realtà e finzione, come prospettabile, fungono da perigeo e apogeo al movimento filmico che quindi rimbalza senza sosta tra questi due estremi. Quello che Graaf compie, almeno nella prima interessantissima mezz’ora, è un continuo sconfessamento con successivo inveramento di ciò che vediamo: le interviste sono vere, no sono finte, un telefono squilla in tv, no squilla sul comodino del salotto, Winnie the Pooh vede delle tracce sulla neve, no sono soltanto le sue orme in cerchio. Il vedere diventa la materia centrale dello studio, e l’approccio alla tematica viene affrontato con una particolare punteggiatura fatta di illusioni ottiche à la Escher (non per niente un olandese), prese per i fondelli, azioni che manifestano il motivo dell’esercizio, tutto è falsificabile, perfino la cosa di cui siamo più certi: il nostro sguardo.

Parallelamente de Graaf innerva al discorso sul cinema una questione molto più ampia che punta dritto ad una disciplina filosofica come l’ontologia. Il sottoscritto non ha i mezzi per discernerne adeguatamente per cui mi limito a riportare i fatti, in sostanza l’anima del Mare che pensa è una profonda riflessione sull’essere attuata per bocca dello sceneggiatore Bart che scrivendo uno script non fa altro che scrivere (di) se stesso, ciò che batte a computer è ciò che accade e viceversa, e nel contempo proliferano indisturbate le domande irrisolvibili di un’indagine abissale che naviga alla cieca nel pensiero moderno, brancolando sì, ma riuscendo comunque ad instillare molti, ma davvero molti dubbi nello spettatore. I due binari (quello del dentro-cinema e quello del dentro-uomo) si toccano, si incrociano e si respingono per poi sovrapporsi perfettamente, il processo, lo intuirete, non è di immediata assimilazione, ma posso sottoscrivere la fertilità dell’operazione, e credo che non ci sia niente di più corretto nel definirla prelibato cibo per la mente.

Il punto è che De zee die denkt pur avvicinandosi più e più volte all’irreversibile cortocircuito, nella sua ultima porzione ispira addirittura ad un plausibile scioglimento così interpretabile: il ritorno della moglie dal Sud America ribalta l’assetto del mondo-Bart, l’uomo, infatti, se fino a quel momento era totalmente immerso nelle sue elucubrazioni filosofeggianti, al cospetto della compagna è obbligato alla resa. Se è plausibile identificare la moglie con la realtà, allora non penso sia un caso che la donna non venga mai inquadrata come a dire che la vera realtà, semplicemente (?), è invisibile. Lo scontro per Bart è potente, e, opinione personale, anche se non lo si avverte chiaramente, in modo implicito anche pessimista. Perché nel crescendo del finale si arriva ad un’amara conclusione: se la vita quotidiana reclama il suo spazio (la bambina da sfamare, una moglie lasciata sola nell’aeroporto) allora non è più tempo per le meditazioni artistiche: la manodopera svanisce e con lei la mano che l’ha creata, e insieme a loro il cervello che l’ha pensata. Quanto rimane è solo un’illusione calpestata da un gatto.

Mettetevi alla prova: immergetevi dentro De zee die denkt, pensate il pensiero in un mare pensante.

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