Opera teoretica fino allo
spasimo: De zee die denkt (Il mare che pensa, 2000)
applica il ludus alla sua ricerca: siamo in un territorio
pericoloso perché Gert de Graaff fa del metacinema
con la “solita” missione di svelare il dispositivo nascosto, e ce
lo suggerisce il prologo dove il risveglio dell’uomo si dimostra
nient’altro che un set con operatore e regista. Realtà e
finzione, come prospettabile, fungono da perigeo e apogeo al
movimento filmico che quindi rimbalza senza sosta tra questi due
estremi. Quello che Graaf compie, almeno nella prima
interessantissima mezz’ora, è un continuo sconfessamento con
successivo inveramento di ciò che vediamo: le interviste sono
vere, no sono finte, un telefono squilla in tv, no squilla sul
comodino del salotto, Winnie the Pooh vede delle tracce sulla neve,
no sono soltanto le sue orme in cerchio. Il vedere diventa la
materia centrale dello studio, e l’approccio alla tematica viene
affrontato con una particolare punteggiatura fatta di illusioni
ottiche à la Escher (non per niente un olandese), prese
per i fondelli, azioni che manifestano il motivo dell’esercizio,
tutto è falsificabile, perfino la cosa di cui siamo più
certi: il nostro sguardo.
Parallelamente de Graaf
innerva al discorso sul cinema una questione molto più ampia
che punta dritto ad una disciplina filosofica come l’ontologia. Il
sottoscritto non ha i mezzi per discernerne adeguatamente per cui mi
limito a riportare i fatti, in sostanza l’anima del Mare che
pensa è una profonda riflessione sull’essere attuata per
bocca dello sceneggiatore Bart che scrivendo uno script non fa altro
che scrivere (di) se stesso, ciò che batte a computer è
ciò che accade e viceversa, e nel contempo proliferano
indisturbate le domande irrisolvibili di un’indagine abissale che
naviga alla cieca nel pensiero moderno, brancolando sì, ma
riuscendo comunque ad instillare molti, ma davvero molti dubbi nello
spettatore. I due binari (quello del dentro-cinema e quello del
dentro-uomo) si toccano, si incrociano e si respingono per poi
sovrapporsi perfettamente, il processo, lo intuirete, non è di
immediata assimilazione, ma posso sottoscrivere la fertilità
dell’operazione, e credo che non ci sia niente di più
corretto nel definirla prelibato cibo per la mente.
Il punto è che De
zee die denkt pur avvicinandosi più e più volte
all’irreversibile cortocircuito, nella sua ultima porzione ispira
addirittura ad un plausibile scioglimento così interpretabile:
il ritorno della moglie dal Sud America ribalta l’assetto del
mondo-Bart, l’uomo, infatti, se fino a quel momento era totalmente
immerso nelle sue elucubrazioni filosofeggianti, al cospetto della
compagna è obbligato alla resa. Se è plausibile
identificare la moglie con la realtà, allora non penso sia un
caso che la donna non venga mai inquadrata come a dire che la vera
realtà, semplicemente (?), è invisibile. Lo scontro
per Bart è potente, e, opinione personale, anche se non lo si
avverte chiaramente, in modo implicito anche pessimista. Perché
nel crescendo del finale si arriva ad un’amara conclusione: se la
vita quotidiana reclama il suo spazio (la bambina da sfamare, una
moglie lasciata sola nell’aeroporto) allora non è più
tempo per le meditazioni artistiche: la manodopera svanisce e con lei
la mano che l’ha creata, e insieme a loro il cervello che l’ha
pensata. Quanto rimane è solo un’illusione calpestata da un
gatto.
Mettetevi alla prova:
immergetevi dentro De zee die denkt, pensate il pensiero in un
mare pensante.
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