Una manciata di
constatazioni/riflessioni/impressioni/interpretazioni di P’tit
Quinquin (2014) figlie di una seconda visione:
- dovrebbe essere la
prima volta che Bruno Dumont lavora su commissione (del canale Arte)
e lo fa attraverso una scelta che in quasi vent’anni di carriera
non aveva mai adottato, come infatti tutti sanno in questa serie tv
(pensata però come un unico film) il regista nato a Nord-Passo
di Calais utilizza un registro che tende al comico sfruttando
maggiormente le sfumature che colorano il grottesco e la caricatura.
Inoltre rispolvera per l’occasione un impianto crime di cui si era
servito nel lontano 1999 con L’umanità, mood diversi
ma affinità comunque riscontrabili, ambedue i casi
investigativi hanno come soggetti due detective improbabili e per
questo molto più memorabili di qualunque altro “duro”
televisivo
- sull’affaire
commedia si è rimasti un bel po’ spaesati perché
oggettivamente era impensabile che il cinema di Dumont potesse
razzolare in questi territori, onore a lui dunque per la voglia ed il
coraggio di reinventarsi dopo una già solida carriera alle
spalle, e da tale prospettiva il risultato complessivo si può
anche definire dignitoso, l’aspetto cialtronesco che oscilla tra
finezze e slapstick si costruisce una sua dimensione che fidelizza lo
spettatore. Non è “divertente” P’tit Quinquin perché
non doveva esserlo, piuttosto è gradevole assistere alla
concertazione complessiva del tutto che contempla una stintura
drammatica in favore di toni più surreali che non erano nel
bagaglio di Dumont. Mi sento comunque di dire che in suddetta ottica
le cose sono belline ma non sempre funzionanti alla perfezione, ad
esempio la scena del funerale ha una cifra tragicomica ammirabile ma
la scelta di inserire la gag dei campanelli è risultata al
sottoscritto un po’ forzata, non ci stava così e così
lunga all’interno di quel segmento. Va detto poi che buona parte
del carico umoristico-farsesco ricade sulle spalle del comandante Van
der Weyden che è una maschera talmente strepitosa che potrebbe
tranquillamente essere il protagonista di una serie a se stante, e il
suo peso nell’economia dell’opera risalta ancora di più se
prendiamo come metro di paragone il successivo Ma Loute (2016)
dove Dumont tenterà di ricalcare lo schema di Quinquin
senza però riuscire a trovare un attore altrettanto efficace
nel ruolo di poliziotto né in quello della sua spalla
- Bernard Pruvost nella
vita fa il giardiniere, ovviamente non aveva mai messo piede su un
set cinematografico, pertanto durante le riprese il nervosismo da
debuttante ha ulteriormente amplificato i tic che già lo
flagellavano, inoltre Dumont, dopo due settimane di riprese in cui
Pruvost era poco incline ad imparare le proprie battute, lo ha dotato
di auricolari con le quali gli comunicava cosa dire, per tale motivo
il comandante compie quegli strani movimenti con la testa. Fonte
- è opportuno
concentrarci più di un attimo sulla figura del piccolo
Quinquin, in particolare nell’interpretazione (del tutto personale)
che lo potrebbe vedere come alter ego di Van der Weyden. È una
supposizione che trovo interessante e che arricchisce il film poiché
dà spessore all’indagine di facciata, d’altronde lo
vediamo noi stessi durante la proiezione di come all’uscita di
scena del poliziotto corrisponda l’entrata del bambino o viceversa,
quasi si trattasse di un’unica entità sdoppiatasi nell’età
e nella morfologia; vi sono anche altri piccoli indizi che potrebbero
corroborare l’ipotesi e che Dumont piazza en passant nella
storia, si veda il ragazzetto che fa il dito medio dietro la schiena
e successivamente l’agente fare la stessa cosa in macchina, oppure
si noti che il giorno della Festa Nazionale alcuni anziani reduci
sottolineano il fatto che il comandante non ha l’aspetto del
leader, osservazione traslabile anche a Quinquin e alla sua banda di
discoli, o si appunti che durante un tragitto nell’auto della
polizia il protagonista e la fidanzatina si stringono la mano con
piena e apparentemente immotivata soddisfazione da parte di Van der
Weyden. Insomma, non sarà così evidente tale legame ma
i presupposti ci sono e l’idea che Quinquin sia il vero
investigatore (è lui che scopre il tunnel segreto tra i due
bunker) o che il comandante sia il vero bambino (il desiderio di
montare a cavallo) non è affatto campata in aria
- sarà anche una
mia possibile interpretazione quella appena succitata ma in realtà
si instrada nella perfetta analisi di Alessandro Baratti (link) che
offre uno spunto a dir poco condivisibile, attraverso il pensiero del
critico si può facilmente ritenere che tutto P’tit
Quinquin non sia nient’altro che il frutto dell’immaginazione
di un bimbetto con la faccia sghemba, e a supportare la tesi ci sono
parecchi elementi ben enucleati nel link appena suggerito. Ad ogni
modo, anche se non fosse così, ed anche se si trattasse di una
sovrainterpretazione, è comunque bello che si arrivi ad
avanzare ciò poiché è sinonimo di un’opera
aperta che si presta a letture differenti
- gli si potrà
dire, non a torto, che dopo Hors Satan (2011) Dumont non è
stato più lo stesso, che sarà anche libero di fare ciò
che vuole ma che noi spettatori intransigenti desideriamo altro
rispetto ad un Camille Claudel 1915 (2013) qualunque, gliene
si potrà dire di ogni, tranne di non scegliere un cast che,
ogni volta, è semplicemente indimenticabile, e non per chissà
quali doti recitative, al contrario, nei film di Dumont ci sono delle
persone in scena e non degli attori, come qui del resto, dove grazie
a questi volti così terreni ci ricorderemo a lungo dei
fratelli Lebleu, di Carpentier, di Dany e di tutti gli altri
compaesani mai così simili a noi
- mi sono chiesto se
l’inserimento di uno stralcio che si colora di politica (“Allah
akbar!”) fosse pertinente al resto della narrazione e mi sono dato
anche una risposta: sì lo è, non troppo forse ma non
stona nemmeno tanto perché comunque Dumont avendo dei
precedenti nella sua filmografia (Hadewijch, 2009) sa come
analizzare questioni delicate e profonde come la religione in
rapporto alla società. In P’tit Quinquin il tema
della discriminazione religiosa/razziale pur non essendo centrale
irrobustisce lo spartito e ben si amalgama con l’investigazione
principale che è la traccia portante del film ossigenandola
poi di ulteriori verosimili moventi, tutti ovviamente sconfessati
dall’evidente impossibilità di giungere ad una soluzione
- SPOILER
perché comunque
al di là del tratto autoriale e al di là dei dialoghi più
o meno forti con i titoli passati del regista, P’tit Quinquin
ha una detection travirgolette classica con annessi sospettati
assassini che si avvicendano sullo schermo. Come era doveroso
attendersi questo non è un film per killer e vista la piega
che la storia prende (un maiale si mangia una ragazza?) l’ultima
cosa di cui ci sarebbe stato bisogno era trovare un colpevole,
tuttavia negli ultimi intensi minuti quando Van der Weyden e
l’aiutante si recano alla casa di Quinquin per arrestare lo zio, se
fate attenzione potrete notare che è il disabile a trattenere
per il giubbotto Carpentier come se si fossero invertiti i ruoli.
Potrebbe essere un abbaglio come potrebbe essere un suggerimento per
un tipico colpo di scena in un crime oltremodo atipico
/SPOILER
- ma quindi come è
‘sto P’tit Quinquin? Se ci mettiamo nei panni di un
appassionato di serie tv con la mente abbastanza elastica si potrà
comprendere di quanto i prodotti americani (vengono tutti da lì
in buona sostanza) siano ben lontani da poter essere definiti
“cinema”, sono dell’opinione che basta un silente primo piano
sulla faccia asimmetrica di un bimbo a radere al suolo un True
Detective di turno, rispettabile sì, ma giusto nel recinto
delle altre seriette con cui può fare la voce grossa. Se
invece ci caliamo nelle vesti del cinefilo oltranzista e dell’ammiratore
di Dumont, la soddisfazione piena non giunge ad un decollo totale,
per il francese ci sono state un tempo esplorazioni più
profonde generatrici di appagamenti superiori. Però ci sta. Cosa non ci
starà è il successivo Ma loute, ma se ne
parlerà…
- Allez Carpentier!
anche per me è un film lungo, diviso in quattro pezzi, e mi è piaciuto un sacco
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