L’introduzione a La
tierra aún se mueve (2017) potrebbe muoversi da un’America
sul finire del sedicesimo secolo nella quale si prova ad immaginare
uno sparuto numero di indiani che dalle rocce a picco sul mare
scorgono all’orizzonte delle “cose” che mai avevano visto
prima, vedono-non-vedono, e soprattutto non sanno che da laggiù,
oltre il palmo che usano come visiera, si stanno avvicinando delle navi poiché le connessioni sinaptiche dei loro
cervelli non sono mai state impiegate per trasmettere informazioni
del genere, e che questa sia una fola o meno è comunque utile
tenerla a mente in relazione al manifestarsi di un film così unico perché, permettetemi il parallelo, Pablo Chavarría
Gutiérrez ci fa diventare a nostra volta degli indigeni di
fronte a dei galeoni sconosciuti: vediamo sì, eppure non
vediamo niente, poiché, semplicemente, vediamo qualcosa di
nuovo, o meglio: qualcosa che ci fa vedere il mondo in un modo nuovo,
ed una tale proprietà non è tanto una caratteristica
dei capolavori quanto delle avanguardie, di chi, indomito, sta
davanti e anticipa, di chi sonda territori che risultano inesplorati
se non inesplorabili e che attraverso un portentoso processo di
modellazione li tesaurizza restituendoceli in dati che oscillano tra
il nodo zenitale e quello nadirale, in quanto alla fine, ciò
che conta, che fonda, è la catena perpetua morte-vita-morte,
come l’inizio (l’immagine iperreale di quello che forse è
un animale quasi fossilizzato – si intuisce una pseudo gabbia
toracica) e la conclusione (tartarughe che depongono delle uova nella
sabbia).
Ma non vorrei mai che la
prospettiva esistenzialista, se così può essere
definita, si presti a chiave di lettura dato che qui siamo di molto
oltre le cognizioni interpretative, se ripensiamo a Las letras
e Alexfilm (entrambi del 2015) c’erano ancòra àncore
esegetiche a cui potersi affidare per un approdo nella logica,
nell’ultima fatica di PCG è invece opportuno arrendersi alle
immagini per domandarsi a quali inusitate potenze può tendere
il cinema. Ultimamente abbiamo visto parecchi esemplari in materia
capaci di sfruttare le latenze di una realtà che gli schermi
hanno ucciso per troppo tempo finzionalizzando tutto, e continuo a
citare Leviathan (2012) come apice del discorso, però
con La tierra aún se mueve, e già lo avevamo
intuito in Las letras, non ci si può impastoiare solo
sulla traiettoria del reale perché Chavarría Gutiérrez,
soprattutto col titolo in oggetto, sofistica indefessamente il
girato, lo altera con accorgimenti ottici che rideterminano, nello
spazio di un fotogramma, il concetto stesso di immagine e quindi di
guardare la medesima. Ed è ovvio che non si tratta
esclusivamente di singolarità, la messa in serie dell’opera
è infatti costituita da una ricorsività che dilaga e
dialoga sottomente (quella strada; quella donna; quel toc-toc)
avvalendosi di un congegno estetico-sonoro di cui non riesco a
trovare parole consone per una sua descrizione, ed il motivo è
forse dovuto all’inafferrabile natura sensoriale del film ed al suo
strabiliante superamento, dove arriva La tierra aún se
mueve?
Non lo so perché
la condizione indigeno-spettatoriale permane anche a proiezione
conclusa, e non so nemmeno dove mi ha portato pur avendo l’assoluta
certezza che un viaggio, anche parecchio intenso, è stato
compiuto, ciò che al massimo si riesce ad esperire è
che nell’attraversamento di svariati stati emotivi quello
dell’inquietudine nera e profonda non se ne è mai andato,
come se in questa sinfonia sconsacrata una filigrana atra tessesse e
intensificasse con un tocco diabolico la “normalità”, e
allora in una qualunque strada notturna un uomo può
trasformarsi in un cane e delle macchine possono diventare ologrammi
opalescenti, e allora un ragazzo messicano di trentuno anni può
girare il suo “The Tree of Death” , di dieci spanne sopra
al tronfio modello yankee, e noi non possiamo fare altro che riunirci
in silenzio.
Un doppio grazie a Dries.
Solo doppio ???? xD
RispondiEliminaComunque PCG è di una bravura ultraterrena, sebbene condivida per filo e per segno ogni tua virgola mi sembra la tua recensione più difficile, e non potrebbe essere altrimenti, davanti a certe cose ( perchè chiamarlo film sarebbe riduttivo) non si possono usare le parole, servirebbe coniare un nuovo linguaggio
Gli altri ringraziamenti li serbo per quando mi procacerrai altre prelibatezze gutierreziane :)
RispondiEliminaDifficile è dire poco, è stata una di quelle situazioni in cui il biancore del foglio word sembra impossibile da riempire, pensi un sacco di cose ma non riesci ad esprimerle in modo degno.
per quanto mi riguarda invece, paradossalmente, è riuscito a tirar fuori il mio miglior scritto di sempre...roba che mi chiedo cosa (o di cosa) potrò scrivere d'ora in avanti.
EliminaAd ogni modo ho tante altre chicche da darti, anche se ovviamente non di gutierrez e non di questa portata :)
non ti credere, magari tra qualche anno rileggerai quello che avevi scritto e dirai: "ma che è 'sta roba?", in un percorso di crescita ci sta un'evoluzione del proprio stile
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