Ci si ferma all’anno di
produzione, il 2010, in fatto di assonanze tra Aramaki e
Shikasha perché quest’ultimo è un lavoro con
altri presupposti, vediamo brevemente quali: rispetto al corto coevo
quello sotto esame è calibrato maggiormente per avere un
effetto sorpresa nei confronti di chi guarda, lo spettatore assiste
dunque a dieci minuti che si parametrano sul finale restituendo,
perciò, una forma di narrazione più consueta ed
accomodante; il fatto che sotto terra ci sia una donna legata ad un
bambino e un gruppo di poliziotti che in superficie li cerca sono
elementi di risalto, immediati, che di certo non aprono a quelle
supposizioni che in Aramaki centravano il nostro occhio
mentale. È sempre una faccenda di letteralità, l’uomo
dentro la foresta agiva in modo incomprensibile riportando però
tutto ad un “ordine” col suo gesto estremo, in Shikasha è
l’accessibilità contenutistica a frenare ogni slancio,
l’”ordine” è già insito nell’impostazione di
Hirabayashi e si fatica ad andare oltre la normale fruizione. Niente
di scandaloso, bisogna essere consapevoli però che Shikasha
non è niente di più che un thriller mozzato del
corpo, un Seven (1995) o un Memorie di un assassino
(2003) senza premesse, senza indagine, solo l’apparizione fulminea
dello scioglimento tramico.
Ma
anche in questo caso pupille piantate sui titoli di coda: l’ultima
immagine scombussola! È l’unico momento dove ci si avvicina
ad un possibile tilt, esclusivamente intrafilmico, circoscritto nella
storiaccia inscenata, ma comunque abile a fornire una significazione
(beffarda) al film.
Presentato
a Cannes 2010.
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