Alla base, ovvero a quel
solo leggere della trama che ha spinto il sottoscritto a visionare
Swordfights (2013), è possibile rintracciare una
concettualità tipica della new wave greca, mi riferisco alla
tendenza di esacerbare certi processi sociali trasportandoli nel
crampo: l’allegoria ha sicuramente assunto un ulteriore significato
con l’avvento di Lanthimos e soci. Qui abbiamo una “realtà”
dove degli uomini svolgono la professione di defloratori, e quindi
ecco il possibile cortocircuito: delle donne pagano per perdere la
propria verginità. Da un tale assunto l’ateniese Nasos
Gatzoulis imposta il proprio corto con un metodo che, e ce ne
accorgiamo minuto dopo minuto, non ha però praticamente nulla
a che fare con il più recente cinema ellenico; in un bianco e
nero metallico il corto si modella tutto su un rapido
campo/controcampo dardeggiato da fulminei inserti che anticipano e/o
intensificano gli avvenimenti. Per un breve (decisamente breve)
periodo il dialogo tra il sedicente psicologo e lo sverginatore si
ritaglia un minimo di attenzione, Gatzoulis crea una parvenza di
tensione con lo stallo dell’arma da fuoco puntata sul dottore che
genera il dubbio: chi sta dicendo la verità?
Ma una volta scoperti gli
altarini tutto crolla fragorosamente. Forse non ci sarebbe nemmeno da
sprecare fiato dietro ad oggetti filmici di tal fatta, il punto è
che usare intelligentemente i codici della commedia è atto
meno facile di quanto possa apparire nella teoria, non per niente è
arduo ritrovarsi dentro ad una commedia così come è
difficile ritenere un’opera appartenente a questo genere un “grande
film”. Magari sto generalizzando troppo, o magari faccio assurgere
il mio gusto a verità assoluta senza tenere conto di quello
altrui, ma davvero non trovo nulla nella comicità che non sia
l’intrattenimento epidermico, la trattenuta orizzontale,
l’unidimensionalità. In Swordfights la svolta
umoristica del finale distrugge le premesse ed affossa il film
scadendo nell’idiozia più totale, il duello all’arma rosea
(è carne, d’altronde) conclusivo, che vorrebbe essere
semantizzato da una citazione di Otto
von Bismarck, è invece una stronzatona che non
ruberebbe nemmeno mezzo sorriso al più incallito fan di Maccio
Capatonda.
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