lunedì 20 marzo 2017

Swordfights

Alla base, ovvero a quel solo leggere della trama che ha spinto il sottoscritto a visionare Swordfights (2013), è possibile rintracciare una concettualità tipica della new wave greca, mi riferisco alla tendenza di esacerbare certi processi sociali trasportandoli nel crampo: l’allegoria ha sicuramente assunto un ulteriore significato con l’avvento di Lanthimos e soci. Qui abbiamo una “realtà” dove degli uomini svolgono la professione di defloratori, e quindi ecco il possibile cortocircuito: delle donne pagano per perdere la propria verginità. Da un tale assunto l’ateniese Nasos Gatzoulis imposta il proprio corto con un metodo che, e ce ne accorgiamo minuto dopo minuto, non ha però praticamente nulla a che fare con il più recente cinema ellenico; in un bianco e nero metallico il corto si modella tutto su un rapido campo/controcampo dardeggiato da fulminei inserti che anticipano e/o intensificano gli avvenimenti. Per un breve (decisamente breve) periodo il dialogo tra il sedicente psicologo e lo sverginatore si ritaglia un minimo di attenzione, Gatzoulis crea una parvenza di tensione con lo stallo dell’arma da fuoco puntata sul dottore che genera il dubbio: chi sta dicendo la verità?

Ma una volta scoperti gli altarini tutto crolla fragorosamente. Forse non ci sarebbe nemmeno da sprecare fiato dietro ad oggetti filmici di tal fatta, il punto è che usare intelligentemente i codici della commedia è atto meno facile di quanto possa apparire nella teoria, non per niente è arduo ritrovarsi dentro ad una commedia così come è difficile ritenere un’opera appartenente a questo genere un “grande film”. Magari sto generalizzando troppo, o magari faccio assurgere il mio gusto a verità assoluta senza tenere conto di quello altrui, ma davvero non trovo nulla nella comicità che non sia l’intrattenimento epidermico, la trattenuta orizzontale, l’unidimensionalità. In Swordfights la svolta umoristica del finale distrugge le premesse ed affossa il film scadendo nell’idiozia più totale, il duello all’arma rosea (è carne, d’altronde) conclusivo, che vorrebbe essere semantizzato da una citazione di Otto von Bismarck, è invece una stronzatona che non ruberebbe nemmeno mezzo sorriso al più incallito fan di Maccio Capatonda.

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