Quello che posso dire di
A mosca cieca (1966) partendo dal presupposto che non so
assolutamente chi sia Romano Scavolini è ciò che si può
leggere nei commenti sparsi per la Rete, e quindi vado a confermare
l’effettivo tasso sovversivo di un film censurato, sommerso,
sgangherato, che non solo si disallinea dal cinema del suo tempo ma
che lo fa anche col nostro rivelandosi un esemplare dotato di una
precisa singolarità. Certo, siamo in un territorio
estremamente grezzo in cui uno Scavolini ventiseienne edifica
distruggendo: è un caos continuo dove ad un montaggio serrato,
vero e proprio collage respingente ed idiosincratico, si accompagna
un sonoro invadente e insensato, tutto ciò dà i natali
ad un flusso filmico che vive nell’ossimoro, i tasselli scorrono ma
sono violati, insertati, riproposti allo sfinimento (il furto della
pistola), spesso indipendenti gli uni dagli altri. È chiaro
che in un caso come questo dove non ci sono coordinate si è
spinti a rintracciare un’ampia varietà di interpretazioni,
sia diegetiche che extra, e nella seconda categoria può
rientrare il discorso di uno Scavolini pronto a fronteggiare il
cinema imbullonato dell’epoca (che poi non è tanto diverso
dal cinema di oggi) sganciando una molotov come Ricordati di Haron
(titolo alternativo), sicuramente sarà così ma il
sottoscritto non conoscendo granché il contesto artistico
italiano degli anni ’60-’70 preferisce tacere e limitarsi ad un
timido assenso.
Eppure nonostante la
dinamitazione compiuta da Scavolini alle normali prassi visive si
percepiscono brandelli di logicità. Dice bene Baldaccini su
Rapporto Confidenziale (link) quando afferma che comunque possiamo
sentire un racconto ma è un sentire di tipo
“presente-altrove”. Non può che essere un’osservazione a
favore di Scavolini, se il regista nato a Fiume è stato capace
di instillare la dimensione di una narrazione pur non adoperandosi
minimamente per trasmettere dei dati lineari allo spettatore,
significa che qualcosa c’è. E in effetti la “storia” che
emerge pullula di spunti, aperture e vicoli ciechi che hanno come
ipocentro il protagonista maschile, uomo in trench costantemente in
fuga, e la sua tormentata relazione con una giovane donna. Il
tormento è forse il sentimento che affiora con maggiore
vigore, è uno strazio latente situato in un essere
metropolitano, tanto che plausibilmente vedere il film attraverso una
lente sociale potrebbe rappresentare un ulteriore appiglio di
riflessione. Avaro di spiegazioni, A mosca cieca si configura
nella nostra mente come la radiografia di un gesto insensato, il
suggerimento che dietro alla follia non debba esserci necessariamente
un’eziologia, un film ruvido che gratta via la ruggine delle
visioni appiattenti, per nulla bello, per nulla comodo,
fortunatamente.
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