mercoledì 26 aprile 2017

Ma loute

Osserviamo il poster: all’interno dell’ovale si nota una variegata umanità dalla quale emerge almeno un tratto comune: ognuno dei soggetti ivi riportati ha una posa da perfetto imbecille, poi leggiamo sotto al titolo la paternità dell’opera e un pochino di dubbi si materializzano: ma come? È proprio quel Dumont lì? Quello che faceva quei film là e a cui difficilmente si sarebbe pensato di accostare una locandina del genere? Perché comunque le locandine sono importanti nei circuiti di vendita, presentano il prodotto, lo identificano, attraggono, ed è per tale motivo che, ad esempio, le opere sperimentali non hanno bisogno di poster poiché non necessitano di pubblico ma di persone, di esseri umani, ed è sempre per questo che Dumont ha piazzato già nel primo strato di Ma Loute (2016) con cui dobbiamo rapportarci la quintessenza del film stesso, ovvero un prodotto di marcata attorialità, di focus caricaturale, di commedia esacerbata e a volte anche un po’ scema. Scusate le ovvie banalità ma purtroppo nelle righe sottostanti ce ne saranno altre, e nell’ottica esegetica non è un bel segno.

Infatti proseguiamo sulla scorta delle ovvietà: è stato ripetuto fino allo sfinimento che dopo Hors Satan (2011) il regista francese era pronto ad intraprendere altre strade, e così ha fatto: Camille Claudel 1915 (2013) è stato un oggetto fin troppo “normale” per quello che avevamo visto fino a quel momento, P’tit Quinquin (2014) ha introdotto una novità assoluta come la vena comica con risultati alterni ma mi sento di dire più che sufficienti, poi, all’interno di queste due pellicole si possono rintracciare tanti segnali di stile e connessioni varie con il resto della filmografia che sazieranno la curiosità dello spettatore, ma ecco che si arriva a Ma loute il quale, come giustamente riportato dalla recensione di Marco Grosoli (link), non è altro che la somma dei titoli che l’hanno preceduto, e allora ad un impianto poliziesco con tanto di buffa coppia investigativa mutuata da Quinquin, si unisce la medesima epoca rappresentata di Camille Claudel e una non dissimile caratterizzazione estetica tra le diverse classi sociali (se ricordate Binoche-Camille si distingueva fisicamente dalla bruttezza degli altri ospiti del manicomio). Compiendo una tale somma algebrica le perplessità già sorte al solo ammirare del manifesto lievitano, e se partiamo ad analizzare il film attraverso il suo aspetto più singolare, ovvero il suo essere commedia, il sottoscritto non è che sia rimasto così impressionato… anche ad essere buoni e a dire “massì, è un Autore, adesso gli è presa così, d’altronde è libero di fare ciò che più gli garba”, continuo – perché già in P’tit Quinquin avevo avvertito in taluni frangenti una ruggine similare – a non ritenere il cinema di Dumont perfettamente calzante col registro farsesco, forse è la comunque presente ricerca di un’artisticità a non sposarsi bene con la comicità agognata, o forse è Dumont a non riuscire a coniugare le due suddette istanze, non lo so, fatto è che in Ma Loute il carico aumenta perché a tratti si sconfina nello slapstick (le cadute della Bruni Tedeschi e del consorte, le accentature sonore sull’obeso detective) e onestamente è l’ultima cosa che mi sarei aspettato e che avrei voluto in un film di Bruno Dumont.

Ma vabbè, andiamo allo step successivo che potrebbe essere quello della smaccata contrapposizione tra i due ceti sociali sullo schermo. Anche qua non me la sento di lasciarmi andare in elogi smisurati, sì all’inizio è diciamo divertente assistere ad un così netto contrasto tra le due fazioni che si realizza anche e in particolare sul piano visivo (al di là di tutto Dumont resta uno dei migliori scout in circolazione in merito a volti inadatti eppure perfetti per il cinema), ma a lungo andare la diatriba sottaciuta non ha pressoché nulla di essa. A causa di un impianto che tende a ripetersi e in cui in sostanza la narrazione è piuttosto ferma se si esclude il soffio romantico tra il protagonista e la rampolla, la visione che poteva essere politica è piuttosto un ritrattino un po’ grottesco un po’ tragico che incide mica tanto, Dumont senza voler approfondire la butta sul ridicolo creando delle figure paurosamente gracili sicché i nobili sono degli idioti incestuosi mentre i poveracci sono dei cannibali da famiglia horror americana. Trovo difficile riscontrare un terreno davvero fertile nell’antitesi tra le due realtà, mi chiedo cosa volesse dirci Dumont con la mise-en-scène di uno scalino sociale come quello che vediamo e non trovo una risposta soddisfacente, nemmeno nella disamina di Grosoli sopraccitata, se qualcuno ha idee in proposito parli ora o taccia per sempre.

E giungiamo all’ultimo punto che mi preme affrontare e che risulta essere anche il più dolente perché adesso vorrei parlare di religione, e mi piacerebbe farlo nel modo in cui Dumont sapeva stimolare me, e molti altri suoi estimatori, poiché in passato l’ex professore di filosofia riusciva a trattare questioni universali arrivando ad una trascendenza cinematografica che ti scuoteva dentro, e l’argomentazione era così efficace perché non c’erano intensificazioni di sorta e tutto rientrava in quel fluire umbratile e sfavillante del sentire una visione piuttosto che vederla, ma qui è un altro discorso in quanto in Ma loute ciò che orbita attorno alla religiosità è proprio macchiettistico e si riduce a qualche sproloquio della Binoche e ad una piccola processione sulla spiaggia, non c’è, quindi, alcun alone mistico qui, se un tempo il Miracolo di Hors Satan toglieva il respiro proprio perché il nostro ossigeno per osmosi filmica andava a riempire i polmoni della ragazza resuscitante, il miracolo di questo film, oltre a non essere una novità assoluta (ricordate i piedi di Pharaon ne L’umanità [1999]?), è, probabilmente con piena consapevolezza, una barzelletta, una boutade, una cialtronata che chiude le due ore di proiezione perché in qualche modo si doveva pur concludere.

Adesso spero vivamente che qualcuno mi smentisca e che mi faccia comprendere che in realtà non ci ho capito un cazzo di niente e che Dumont resta sempre un signor Regista.

2 commenti:

  1. l'ho guardato ieri, sei anche troppo buono, mi sembra.
    più un esercizio di stile che altro, direi.

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  2. Non so se sia un discorso di aspettative, nel senso che uno da Dumont si aspetta dell'altro, ma, sintetizzando di brutto, mi sento di ribadire che da umile spettatore io voglio molto ma molto di più. In fondo Ma Loute è una rimodulazione di P'tit Quinquin priva di personaggi con appeal e onestamente non mi va bene, non a caso è stato distrubuito nelle sale e la distribuzione è spesso una cartina tornasole delle qualità dell'opera.

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