Il mite Ari si sposta da
Reykjavik, dove viveva con la madre, per traslocare nel nord
dell’Islanda, dove invece si trova il padre. L’ambientamento non
sarà facile.
Quattro anni dopo Volcano
(2011) Rúnar Rúnarsson firma il suo secondo
lungometraggio, Þrestir, (2015) ed è
subito una piccola debacle. Nel menù offerto dall’islandese
vi sono portate dal gusto ampiamente già visto, conosciuto,
assaporato; va detto che il cinema di questo ragazzotto puntando il
mirino sui legami personali e sui soggetti principali di tali
intrecci, con il film precedente e gli altri due cortometraggi
pre-debutto aveva dato prova di sapersi orientare in modo accettabile
nell’arte narrativa, ma con Passeri il passo indietro è
manifesto poiché Rúnarsson non riesce a rinvigorire un
racconto che si basa su presupposti molto ma molto canonici:
l’adolescenza difficile induce a uno sbadiglio, il rapporto col
padre a due sbadigli, il ritratto dei coetanei con il bulletto di
turno è da narcolessia. Il punto è che l’amalgama dei
suddetti ingredienti si traduce in un quadro scialbo punteggiato da
situazioni fin troppo prevedibili finanche immotivate, si veda
l’improvvisa morte della nonna che non ha particolari ripercussioni
sulla storia o la gratuita parentesi erotica con la compagna del
padre, una scena davvero ingiustificata. È un po’ sempre il
solito discorso, più ci troviamo a guardare un cinema che si
affida esclusivamente alla sceneggiatura, più il pericolo di
prestare il fianco ad obiezioni logiche si alza, e se le obiezioni
sono legittime allora il castello di carte si sfascia. I campi lunghi
paesaggistici sono belli, ma fare un film è un’altra
faccenda.
Purtroppo per Rúnarsson
al sottoscritto non è pesato soltanto il pallore che ammanta
l’opera, c’è una questione ulteriore che quasi infastidisce e che
non può essere taciuta. Infatti tutto l’intreccio tramico
alla fine si risolve in una scena madre che è la copia sputata
di quella rintracciabile in Two Birds (2008), c’è lo
stesso attore adesso cresciuto (si chiama Atli Oskar Fjalarsson e
inspiegabilmente nel suo scarno curriculum c’è una voce che
lo vede nella troupe di Interstellar [2014]… mah!), e c’è
la stessa identica situazione con Ari suo malgrado voyeur di Lára
in botta piena posseduta da due tizi. Si può capire
l’autocitazione, si può accettare il fatto che molti registi
nella loro carriera abbiano ampliato un proprio cortometraggio
trasformandolo in un lungo, tuttavia io non comprendo né
accetto perché mi è sembrato di registrare più
che altro una preoccupante assenza di idee mascherata dal maldestro
tentativo di creare delle premesse ad un lavoro compiuto sette anni
prima. Come si può pensare di procedere in avanti proponendo
la rimasticatura di un piatto ormai scaduto? E si badi bene che Two
Birds non è uno short movie del tutto sconosciuto eh,
oltre alla visibilità on line va ricordata la sua
presentazione a Cannes ed un peregrinare in giro per il mondo in
molti festival dedicati al genere, quindi siamo lontani da un oggetto
di nicchia sconosciuto al pubblico, e tutto ciò non può
che comportare una forte svalutazione di Þrestir dove oltre
all’infelice riproposizione di cui sopra, anche il resto non
funziona granché.
Non l'ho visto, ma Two Birds sì, come tutto il resto di Rúnarsson. Quando ho visto la locandina ho pensato proprio la stessa cosa. Visionerò per completezza, magari sperando di non perder tempo.
RispondiEliminaIo ti dico solo che ho trovato irritante il forzato collegamento con il corto precedente e scialba tutta la parte introduttiva, poi fa tu.
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