Giusto che il
protagonista, un memorabile Georg Friedrich habitué dei set
hanekiani, dia il titolo al film: Aloys è il punto centrale
della storia che però non è un punto fermo nonostante
le sue premesse così ristagnanti nella mestizia, c’è
un’evoluzione nella scrittura ruolistica del personaggio così
come si registra una mutazione nel campo categoriale proprio
dell’opera. Diciamo quindi che il nesso tra il soggetto principale
e la pellicola stessa segue questa tendenza trasformativa, infatti l’inizio
pone la questione su una traiettoria da hard boiled in
chiave austriaca: toni stinti, freddezza diffusa, geometrie
asettiche, e di conseguenza anche le informazioni fornite su Aloys lo
tratteggiano come uno dei tanti uomini soli che il cinema occidentale
(e non solo) ha raccontato negli anni, niente è eclatante nei
vari addendi che fanno la somma di tale solitudine, tuttavia la
variante elvetica del debuttante Tobias Nölle non urta e un po’
di fluidi empatici oltrepassano lo schermo; poi Aloys (2016)
cambia e con lui anche Aloys: Nölle mette da parte la possibile
inusuale detection dove l’investigatore diventa l’investigato per
aprire la sua opera ad un raggio umanista che si concentra
esclusivamente sulle persone, le uniche due, e sulla distanza che le
separa, da qui in avanti il lungometraggio si muove in una zona
diversa da quanto aveva fatto intuire per penetrare in altre aree
cinematografiche (tipo quelle esteuropee di Pálfi
e Sigarev) dove il vedere, il
nostro vedere, viene scombussolato dal fiorire di piani ulteriori a
quello grigio e piatto dell’infelicità, e ad una rinascita
filmica corrisponde anche una resurrezione emotiva del povero
detective.
Ci
sono dei validi momenti perché Aloys
è un film di finzione confezionato molto bene in cui il
regista e tutto il team produttivo, dal comparto fotografico a quello
sonoro, sfoggiano una professionalità che non fa di certo
pensare ad un esordio, sul fronte sceneggiaturiale è forse
opinabile il succo della vicenda che non può fregiarsi di una
significazione innovativa, di autori che hanno tentato di
riavvicinare il cuore degli uomini soli ce ne sono così tanti
che il tema è ormai inflazionato, come sempre però a soccorso del coraggioso di turno ecco che i metodi utilizzati nella
trattazione dell’argomento riescono a mitigare il tasso d’abuso, ed è
esattamente grazie all’estro impiegato da Nölle
che qualcuno potrà ricordare maggiormente la portata estetica
rispetto a quella semantica, e quei buoni momenti sopraccitati si
riconducono all’intrigante idea di strutturare il rapporto tra
Aloys e Vera via telefono e di dare forma per immagini
all’idealizzazzione sentimentale tra un uomo e una donna che si
amano senza conoscersi. La progressione di un legame alquanto strambo
su cui aleggia sempre il fantasma della malinconia (il papà)
ha una discreta forza ostensiva che per mezzo di lacerazioni
narrative, ribaltamenti spaziali ed evocazioni mentali trasporta il
tutto ad un crescendo conclusivo che si guarda con partecipazione, ed
anche se per sentirci leggeri e inarrivabili dobbiamo affrontare ben
altro cinema, Aloys e il suo mondo uggioso recapitano con
stile una morale allo spettatore: solo quel lucore, quel barlume,
quello scintillio situato nell’altro può farci sentire
davvero vivi.
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