Essendo Albert Serra
autore snob e dotto, per provare ad analizzare La mort de Louis
XIV (2016), opera che necessiterebbe di uno studio ben più
approfondito di qualunque striminzito commento, compreso ovviamente
questo, il gesto più semplice da fare è quello di
voltarsi indietro per cercare un laccio con il film appena
precedente: Story of My Death (2013), ecco che al solo
accostamento dei due lavori emerge un primo punto di contatto a mio
modo di vedere molto forte: è difatti facile notare che ambo i
titoli contengono la parola “morte”. Ora, la questione è
ragionare su come Serra abbia declinato tale topic funereo attraverso
il cinema e al di là del mero dispiegarsi degli eventi che qui
si esplicitano nelle ultime agonizzanti ore del Re Sole, la tendenza
dell’autore classe ’75 sembra essere quella di avere un po’
abbandonato i suoi processi destoricizzanti in favore di una
metaforizzazione della Grande Storia per mezzo di una lente
mortuaria. In altre parole, così come i due personaggi
principali di Història de la meva mort, Dracula e
Casanova, impersonificavano lo iato tra due epoche culturali
distinte, illuminismo e romanticismo, ed il soverchiamento dell’una
sull’altra, anche la messa in scena delle sofferenze di Luigi
quattordicesimo cela uno slancio più ampio dall’eguale
portata storico-filosofica, pertanto la morte del Re è
intendibile come la rappresentazione dell’impraticabilità
dell’assolutismo come forma di governo (pensiero rimarcato anche in
questa intervista), ne consegue che lo spettatore deve fare i conti
con un cinema che non solo è esteticamente grande perché
Serra gira come pochi altri, ma anche concettualmente pregno,
cavo di spunti e possibili, intelligenti, riflessioni.
Continuità con la
pellicola del 2013, ma discontinuità con le precedenti: se
rammentiamo la natura raminga di Honour of the Knights
(2006) e Birdsong (2008) ecco che The Death of Louis XIV
si distingue per un’impostazione occlusa dalla pomposità di
un set fatto solo di interni (a parte il breve prologo), di tendaggi
pesanti, di drappi e parrucconi (decisamente caricaturali), di
tremule fiammelle, un sistema planetario catacombale che Serra
cesella in modo sopraffino e che fa ruotare, come non poteva essere
altrimenti, intorno al proprio sole, una stella, e si noti la
duplice accessibilità semantica, che porta il nome di
Jean-Pierre
Léaud, qui alla sua prova attoriale più
testamentaria. Atmosfera greve e trionfi di buio, il grottesco che
sembra sempre dietro l’angolo senza però mai manifestarsi
del tutto (a parte, forse, nell’inaspettata autopsia conclusiva, un
atto che quasi ci riporta alla smitizzazione citata sopra: il re viene
fatto a pezzi!), la sofferenza di un sovrano in cui comunque si
riesce a leggere una nota umana che oserei definire “sincera”
(merito del suo interprete e di chi ha saputo cogliere tale
sfumatura), la ricostruzione di un sudario settecentesco pucciato in
densi contrasti caravaggeschi (pannelli di oscurità e macchie
di luce), l’alto livello dei dialoghi adibiti a trasportare il
discorso verso altri terreni (perfino scientifici vista l’importanza
che si dà alla medicina, e la chiusa misteriosa del medico di
corte ce lo conferma) fanno de La mort de Louis XIV ciò
che ci si aspettava fosse: un’inevitabile capolavoro.
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