sabato 22 aprile 2017

Fit

Fit (1994) è probabilmente il risultato conclusivo del percorso accademico compiuto da Athina Rachel Tsangari negli Stati Uniti, infatti una scritta posta alla fine del corto asserisce che le riprese sono state effettuate ad Austin, proprio dove era ubicata l’università che una ventottenne Tsangari stava frequentando. Così ha iniziato la principale fautrice del rinnovamento greco in ambito cinematografico: con un lavoro che ha lontane reminiscenze dereniane, che evoca una certa impertinenza giovanile, che si avvale di interventi significativi in fase di post-produzione: qui c’è un punto interessante: al tempo la Tsangari pareva molto più interessata ad operare nella surrealtà in quanto tale, ovvero negli otto minuti di Fit il reale non esiste, si tratta di una finestra sghemba sull’irrazionale, un compito di diligente anarchia portato a termine da una studentessa che esplora la capienza del mezzo cinema: lacerazioni ed incollamenti, accelerazioni e distorsioni, la Tsangari come una piccola alchimista nella camera oscura.

Lungi da me lanciarmi in paragoni assurdi con Attenberg (2010), mi limito solo a pensare il percorso di questa autrice greca, e, tralasciando The Slow Business of Going (2000) che non sono ancora riuscito a visionare e in cui recitano i due attori di Fit, è interessante notare il cambio di prospettiva che ovviamente non riguarda soltanto Attenberg in sé ma tutto il movimento che si è generato nel giro da lì a poco. La differenza basilare è che un film come Fit mira alla completa astrazione, compiaciuto nei propri ghirigori si sgancia da qualsivoglia interpretazione, Dogtooth (2009) et similia viceversa necessitano inderogabilmente di una decodificazione poiché sono metafore ambulanti della nostra società. È qui la differenza tra un cinema se vogliamo sperimentale ed uno narrativo, il primo punta l’obiettivo dentro di sé, l’altro verso lo spettatore. Dove debba dirigersi il nostro sguardo sta a noi capirlo, il sottoscritto dopo anni di visioni un’idea se l’è fatta.

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