Potrebbe essere
esattamente qui, come d’altronde potrebbe essere nell’ovunque
altrove, la meta che noi infaticabili visionatori cerchiamo con la
bramosia di chi non sa accontentarsi di quello che i nostri “amici”
vedono credendo chissacché, non è e non può
essere una sosta lunga ed appagante quella di Cántico das
criaturas (2006) perché il Gomes di questo corto, reduce
dall’esordio nel lungo con A Cara que Mereces (2004), gioca
a nascondersi, avanza sotto la traccia para-sperimentale, applica la
dimensione ludica al mezzo cinema in un’operazione che
caratterizzerà tutta la sua filmografia: c’è anche
una delicata nostalgia, una specie di marchio non visibile, ma
percepibile, che ha creato qualcosa di similare ad un immaginario
poetico: la malinconia, la filigrana dell’ironia, la leggerezza del
sentimento, fanno del cinema gomesiano una gemma dell’attualità
artistica, il tutto innervato da un vero studio del mezzo, una
ricerca strutturale molto appagante che ha trovato in Tabu
(2012) il proprio completamento e che ha riverberi non così
tenui anche sul lavoro sotto esame.
Costituito da tre parti
profondamente eterogenee, e da subito va evidenziata la riuscita
fusione della triade in un flusso misteriosamente coerente, Cántico
das criaturas nella porzione d’apertura girata in una finta
amatorialità (è sì esteticamente vicina all’8mm
ma occhio al lavoro in post-produzione sulla frequenza dei
fotogrammi) anticipa col menestrello Paolo Manera, uomo di cinema
nostrano, la prima metà di Our Beloved Month of August
(2008) dove in entrambe le situazioni si viene a creare una bislacca
commistione fra musica e ritratto folcloristico (qua abbiamo il
vagare per Assisi e la scopertura della statua), ma nella sezione
susseguente tutto cambia: al “filmino casalingo” si sostituisce
una rappresentazione in costume di San Francesco che ci trasporta nei
territori di de Oliveira, l’agiografia di Gomes è un tuffo
nel fittizio (i fondali disegnati, l’intensificazione delle luci)
che contrasta e parimenti accarezza il segmento ultra realistico
dell’inizio. Il generarsi di questo evidente stridio mi pare che
esalti le possibilità pressoché smisurate del cinema e
della libertà che può garantire a chi ci lavora dentro,
non è affatto cosa da poco: anche se il corto non dura più
di venti minuti è grazie all’intraprendenza esplorativa che
possiamo goderci un piccolo studio sulle potenzialità della
settima arte, ed il piacere non si ferma alla messa in scena poiché
nello stralcio conclusivo si ha un’ulteriore riconfigurazione,
possibile summa delle precedenti: immagini etologiche, e quindi
precipitati di realtà, filtrate, riverniciate, splittate e
doppiate da una voce infantile che conduce il film in un inaspettato
inno alla vita, e quindi alla morte.
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