Era evidente che dopo una
serie di cortometraggi (e per quanto abbiamo potuto vedere uno di
essi sa il fatto suo: Two Birds, 2008) il grande passo per
l’islandese Rúnar Rúnarsson sarebbe stato il debutto
nel lungometraggio, Eldfjall arriva nel 2011 e si prende una
vetrina di lusso come Cannes (da dove il regista era comunque già
passato con Smáfuglar) più un cospicuo numero di
premi vinti (IMDb ne conta oltre una dozzina) in svariati Festival.
Per questo film Rúnarsson sceglie la via della semplicità,
né la trama in sé è particolarmente elaborata
(un uomo di mezza età che proprio quando va in pensione deve
fronteggiare una disgrazia familiare) né il suo stile che con
assoluta discrezione carpisce il mood del sentimento
stagionato, della rassegnazione, dell’accettare i titoli di coda
sulla vita. Interessante notare l’atteggiamento del protagonista
che nei primi trenta minuti con quei due episodi che lo portano ad un
passo dalla morte ha un qualcosa di inconsapevole in relazione alle
azioni che è sul punto di compiere, la condotta è
figlia di un malessere personale che una volta messo di fronte al
vero ed incombente trapasso svanisce, si volatilizza lasciando
filtrare quell’umanità che non se ne era mai andata ma che
fino a quel momento era stata oscurata da nubi nere, e il ritorno al
sorriso oltre a riguardare il prendersi cura della moglie-vegetale
comprende anche la condivisione di un’esperienza (molto nobile
peraltro, visto che la barca apparteneva al bisnonno del bimbo) con
il nipotino che ad inizio film si era beccato un rimbrotto tra i
denti per aver giocato a pallone in giardino.
La mutazione relazionale
da parte del marito è senza dubbio l’architrave del film e
permette di lasciarsi andare a congetture che in soldoni riguardano o
riguarderanno tutti noi, senza dimenticare che grazie alla prova
attoriale di Theodór Júlíusson la sua
metamorfosi da uomo rude e scontroso a coniuge premuroso e
disponibile al sacrificio (anche il più estremo che si possa
pensare) instilla della tenerezza in un’opera che non ha come
obiettivo principale quello di coinvolgere emotivamente chi guarda.
Rúnarsson è capace nel rendere credibili i
cortocircuiti tra vita-morte-amore e in aggiunta si applica nel
caricare l’idea dell’isola abbandonata trentasette anni prima a
causa di un’eruzione vulcanica (il prologo significativo inanella
immagini di reperto sull’argomento) come una specie di Eden
perduto, un’oasi che si può guardare da lontano (mentre si
affonda!) o dove si va a riposare, per l’eternità. Purtroppo per Rúnarsson
coloro i quali guarderanno Volcano dopo aver visto Amour
(2012) non rimarranno particolarmente colpiti dall’agghiacciante
gesto di Hannes che invece avrebbe tutte le carte in regola per
ammutolire lo spettatore, questo perché Haneke, sicuramente
senza farlo di proposito, ripete nel suo film la medesima sequenza
con Trintignant la cui condotta è mossa da sentimenti e
motivazioni completamente identici a quelli del suo collega
islandese. L’effetto viene perciò depotenziato dalla
sensazione di “già visto”, ad ogni modo cercando di
riappropriarci della verginità che Haneke ci ha tolto, la
dolorosa conclusione ha una coerenza che convince e che fortifica un
percorso umano: dall’eutanasia per odio (verso di sé)
all’eutanasia per amore (verso l’altro).
Quando vidi questo film, peraltro molto bello, iniziai ad avere dei dubbi su Haneke, possibile che non lo avesse visto e copiato?
RispondiEliminanon lo so, la domanda è sorta spontaneamente anche a me. Di certo è un fatto clamoroso passato un po' sottotraccia. Propendo per la coincidenza, comunque.
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