domenica 10 gennaio 2016

Volcano

Era evidente che dopo una serie di cortometraggi (e per quanto abbiamo potuto vedere uno di essi sa il fatto suo: Two Birds, 2008) il grande passo per l’islandese Rúnar Rúnarsson sarebbe stato il debutto nel lungometraggio, Eldfjall arriva nel 2011 e si prende una vetrina di lusso come Cannes (da dove il regista era comunque già passato con Smáfuglar) più un cospicuo numero di premi vinti (IMDb ne conta oltre una dozzina) in svariati Festival. Per questo film Rúnarsson sceglie la via della semplicità, né la trama in sé è particolarmente elaborata (un uomo di mezza età che proprio quando va in pensione deve fronteggiare una disgrazia familiare) né il suo stile che con assoluta discrezione carpisce il mood del sentimento stagionato, della rassegnazione, dell’accettare i titoli di coda sulla vita. Interessante notare l’atteggiamento del protagonista che nei primi trenta minuti con quei due episodi che lo portano ad un passo dalla morte ha un qualcosa di inconsapevole in relazione alle azioni che è sul punto di compiere, la condotta è figlia di un malessere personale che una volta messo di fronte al vero ed incombente trapasso svanisce, si volatilizza lasciando filtrare quell’umanità che non se ne era mai andata ma che fino a quel momento era stata oscurata da nubi nere, e il ritorno al sorriso oltre a riguardare il prendersi cura della moglie-vegetale comprende anche la condivisione di un’esperienza (molto nobile peraltro, visto che la barca apparteneva al bisnonno del bimbo) con il nipotino che ad inizio film si era beccato un rimbrotto tra i denti per aver giocato a pallone in giardino.

La mutazione relazionale da parte del marito è senza dubbio l’architrave del film e permette di lasciarsi andare a congetture che in soldoni riguardano o riguarderanno tutti noi, senza dimenticare che grazie alla prova attoriale di Theodór Júlíusson la sua metamorfosi da uomo rude e scontroso a coniuge premuroso e disponibile al sacrificio (anche il più estremo che si possa pensare) instilla della tenerezza in un’opera che non ha come obiettivo principale quello di coinvolgere emotivamente chi guarda. Rúnarsson è capace nel rendere credibili i cortocircuiti tra vita-morte-amore e in aggiunta si applica nel caricare l’idea dell’isola abbandonata trentasette anni prima a causa di un’eruzione vulcanica (il prologo significativo inanella immagini di reperto sull’argomento) come una specie di Eden perduto, un’oasi che si può guardare da lontano (mentre si affonda!) o dove si va a riposare, per l’eternità. Purtroppo per Rúnarsson coloro i quali guarderanno Volcano dopo aver visto Amour (2012) non rimarranno particolarmente colpiti dall’agghiacciante gesto di Hannes che invece avrebbe tutte le carte in regola per ammutolire lo spettatore, questo perché Haneke, sicuramente senza farlo di proposito, ripete nel suo film la medesima sequenza con Trintignant la cui condotta è mossa da sentimenti e motivazioni completamente identici a quelli del suo collega islandese. L’effetto viene perciò depotenziato dalla sensazione di “già visto”, ad ogni modo cercando di riappropriarci della verginità che Haneke ci ha tolto, la dolorosa conclusione ha una coerenza che convince e che fortifica un percorso umano: dall’eutanasia per odio (verso di sé) all’eutanasia per amore (verso l’altro).

2 commenti:

  1. Quando vidi questo film, peraltro molto bello, iniziai ad avere dei dubbi su Haneke, possibile che non lo avesse visto e copiato?

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  2. non lo so, la domanda è sorta spontaneamente anche a me. Di certo è un fatto clamoroso passato un po' sottotraccia. Propendo per la coincidenza, comunque.

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