Molte persone mi chiedono
per chi faccio i miei film e non so nemmeno questo. Ma ho vissuto
abbastanza a lungo, così a lungo che mi sento stanco e non ho
più voglia di fare film. Forse tutte le cose che voglio
filmare sono già state filmate.
(Tsai Ming-liang da qui)
(Tsai Ming-liang da qui)
Si è parlato molto
nei siti appositi di Jiao you (2013) dopo la prima veneziana,
forse non si era mai discusso così tanto di un film del
regista taiwanese come in questo caso, e il motivo prescinde dalla
sua bontà o meno, semplicemente in quest’era di Internet il
potere recensionistico è ad appannaggio di tutti con gli esiti
che si possono facilmente immaginare. Per cui, vista una così
vasta mole di parole già presente in Rete sul paventato Ultimo
Film tsaiano, le mie, di parole, per di più in ritardo di
oltre due anni nei quali, tra l’altro, l’autore taiwanese si è
sconfessato da sé partorendo ulteriori lavori, si accodano
umilmente al coro di elogi muovendosi su un tracciato essenzialmente
filologico.
Se guardiamo Stray
Dogs dal punto di vista dell’eventuale Conclusione di una
carriera è indubbia la rintracciabilità di uno stile
trasportato all’estrema radicalizzazione, qualcosa che potrebbe
farci dire fatidiche parole del tipo “più di così non
si può” (sbagliando: il cinema può sempre avanzare,
altrimenti morirebbe), e quindi via di elenco con riferimenti
all’assoluta dilatazione temporale, alla rarefazione dialogica,
alla pressoché scomparsa di una cronologia letterale. Tutto
ciò è incontrovertibile in Stray Dogs, quello di
Tsai è plausibilmente il film che chiude il cerchio, che si
presenta come una totalità, ma al contempo fatico a non
pensare le suo opere precedenti come delle singole totalità
prese una per una; il cinema di Tsai, lo si è detto fino allo
svenimento, è tra i più autoreferenziali nel panorama
mondiale, il sistema ricorsivo di attori, temi, tic, ossessioni, lo
ha reso l’artefice di una lunga catena filmica i cui anelli
rappresentano, nel loro stesso ecosistema, un’Alfa e un Omega
dotato di nascita, morte e susseguente resurrezione nel film
successivo (la figura attoriale di Lee Kang-sheng mi pare che possa
riassumere bene il concetto: ogni volta lo stesso nome, ogni volta
una persona diversa). A tal proposito non si può non citare
Good Bye, Dragon Inn (2003), trattato sulla fine della settima
arte che andrebbe posto a conclusione non solo della filmografia di
Tsai ma del cinema tout court, esempio di big crunch concettuale con
un finale che si fa clamorosamente controcampo del finale di Jiao
you. Per cui è difficile accettare l’idea che la
cinematografia di Tsai abbia avuto una progressione perché già
l’inizio, Rebels of the Neon God (1992), era una Fine.
Nessun avanzamento allora, come nessuna regressione, ma infinita
sospensione circolare, ergo: non sussiste l’ipotesi di un capitolo
conclusivo, ogni capitolo è già una conclusione.
Di bellezza in Stray
Dogs ce n’è parecchia, ed è una bellezza che
supera di gran lunga il lungometraggio appena antecedente Face
(2009), qui c’è una bellezza più virginale, una
purezza scevra da ornamenti: è un approdo nell’Immagine per
uno stravolto Tsai, i tempi dei balletti folkloristici sono finiti,
il non-racconto si modella sugli spigoli di una vita ai margini, non
vi è centralità né protagonismo, per riprendere
l’esistenza a latere si gira dislocando, si raccolgono gli
scarti, ci si ciba di momenti inessenziali, niente nella
superficialità degli eventi è importante al punto che
la controparte femminile viene impersonata da tre attrici diverse
(tutte interpreti minglanghiane doc), ciò che diventa
essenziale, perciò, è l’immagine, l’immagine che è
Racconto, Attore, Senso, Mezzo, Fine, in una parola: Dio. A conti
fatti, oggi, non si può fare altro che lavorare sulla
sterminata potenzialità della particella elementare del cinema
per poter partorire degli esemplari con una propria identità
artistica. L’essere intransigente di Stray Dogs risiede nel
rifiuto non solo delle banali grammatiche della commercialità,
ma anche delle grammatiche passate di Tsai perché pur non
essendo mai stato un regista facilmente digeribile prima di questa
pellicola aveva sempre all’incirca fornito coordinate atte ad una
lettura della diegesi, ora non sembra più interessato a farlo,
Tsai mi pare sia sbarcato in un territorio molto più libero (e
Walker [2012] e derivati lo dimostrano) dove semplicemente fa
quello che vuole senza più curarsi del feedback spettatoriale.
A proposito di bellezza,
per motivi a cui non sono riuscito ad arrivare ma che accetto con
grazia, in Stray Dogs risulta fondamentale la presenza scenica
degli edifici, siamo testimoni di un’assenza (Lee che dorme in una
topaia con i due figli), di un miraggio (Lee che si intrufola in una
villa e crolla addormentato sul letto) e di una meravigliosa
concretizzazione metaforica: la casa della donna, resa esteticamente
in modo straordinario, è la casa-cinema di Tsai, è come
se la strada fino a quel momento percorsa dall’autore si
concentrasse lì dentro, e tutta l’acqua scorsa durante i
vari film fosse compenetrata in quelle pareti annerite, tutte quelle
vite (in una sola vita: Hsiao-Kang) fluite nei muri dell’abitazione,
i segni sono lacrime, (anche) quelle di Vive l’amour (1994).
Appurato il legame
consanguineo tra Stray Dogs e tutti gli altri fratellini della
famiglia, se c’è un nesso ancora più forte è
quello con uno dei più sottovalutati film di Tsai ma che per
quanto mi riguarda può fregiarsi di capolavorità: I Don’t Want to Sleep Alone (2006), altro lacerto d’Apocalisse,
condivide con Jiao you un medesimo peregrinare urbano che
trova una pseudo-catarsi nella fatiscenza di un luogo dismesso,
parallelo delle vite dei due Hsiao-Kang. Vediamo che per entrambi i
film nelle macerie si possono realizzare/intravedere delle chimere,
nel film del 2006 si trattava di una farfalla, in quello del 2013 di
un murales rappresentante un sereno paesaggio. Ovvio che in Stray
Dogs la presenza di questo grosso disegno e il corrispettivo
rapporto con i due esseri umani che gli si trovano di fronte assume
un ruolo fondamentale, e a questo punto è obbligatorio fare
riferimento al finale, un finale che è già diventato
leggenda poiché settato per la sfida estrema: mostrare il non
vedibile, l’emozione primigenia che nasce dalla visione: L’Uomo e
La Donna al cospetto del Grande Schermo, dell’Immagine, di Dio, e
la loro esperienza profondamente intima (gli occhi lucidi), che è
la nostra medesima esperienza al cospetto di quello che dovrebbe
farci vivere il cinema: estasi, estasi, estasi! E l’uscita di scena
dei due, alla fine, non fa che sottolineare la cruciale posizione del
vedibile, lo schermo e quello che c’è dentro. Se c’è
una fine, è solo per l’Umano, il cinema, comunque, resta.
come sempre sei bravissimo..me lo guardo
RispondiEliminaCerco, come ho fatto in questi anni, di essere una protesi della visione. è il film che conta, non le mie parole.
RispondiElimina