lunedì 8 febbraio 2016

Stray Dogs

Molte persone mi chiedono per chi faccio i miei film e non so nemmeno questo. Ma ho vissuto abbastanza a lungo, così a lungo che mi sento stanco e non ho più voglia di fare film. Forse tutte le cose che voglio filmare sono già state filmate.

(Tsai Ming-liang da qui)

Si è parlato molto nei siti appositi di Jiao you (2013) dopo la prima veneziana, forse non si era mai discusso così tanto di un film del regista taiwanese come in questo caso, e il motivo prescinde dalla sua bontà o meno, semplicemente in quest’era di Internet il potere recensionistico è ad appannaggio di tutti con gli esiti che si possono facilmente immaginare. Per cui, vista una così vasta mole di parole già presente in Rete sul paventato Ultimo Film tsaiano, le mie, di parole, per di più in ritardo di oltre due anni nei quali, tra l’altro, l’autore taiwanese si è sconfessato da sé partorendo ulteriori lavori, si accodano umilmente al coro di elogi muovendosi su un tracciato essenzialmente filologico.

Se guardiamo Stray Dogs dal punto di vista dell’eventuale Conclusione di una carriera è indubbia la rintracciabilità di uno stile trasportato all’estrema radicalizzazione, qualcosa che potrebbe farci dire fatidiche parole del tipo “più di così non si può” (sbagliando: il cinema può sempre avanzare, altrimenti morirebbe), e quindi via di elenco con riferimenti all’assoluta dilatazione temporale, alla rarefazione dialogica, alla pressoché scomparsa di una cronologia letterale. Tutto ciò è incontrovertibile in Stray Dogs, quello di Tsai è plausibilmente il film che chiude il cerchio, che si presenta come una totalità, ma al contempo fatico a non pensare le suo opere precedenti come delle singole totalità prese una per una; il cinema di Tsai, lo si è detto fino allo svenimento, è tra i più autoreferenziali nel panorama mondiale, il sistema ricorsivo di attori, temi, tic, ossessioni, lo ha reso l’artefice di una lunga catena filmica i cui anelli rappresentano, nel loro stesso ecosistema, un’Alfa e un Omega dotato di nascita, morte e susseguente resurrezione nel film successivo (la figura attoriale di Lee Kang-sheng mi pare che possa riassumere bene il concetto: ogni volta lo stesso nome, ogni volta una persona diversa). A tal proposito non si può non citare Good Bye, Dragon Inn (2003), trattato sulla fine della settima arte che andrebbe posto a conclusione non solo della filmografia di Tsai ma del cinema tout court, esempio di big crunch concettuale con un finale che si fa clamorosamente controcampo del finale di Jiao you. Per cui è difficile accettare l’idea che la cinematografia di Tsai abbia avuto una progressione perché già l’inizio, Rebels of the Neon God (1992), era una Fine. Nessun avanzamento allora, come nessuna regressione, ma infinita sospensione circolare, ergo: non sussiste l’ipotesi di un capitolo conclusivo, ogni capitolo è già una conclusione.

Di bellezza in Stray Dogs ce n’è parecchia, ed è una bellezza che supera di gran lunga il lungometraggio appena antecedente Face (2009), qui c’è una bellezza più virginale, una purezza scevra da ornamenti: è un approdo nell’Immagine per uno stravolto Tsai, i tempi dei balletti folkloristici sono finiti, il non-racconto si modella sugli spigoli di una vita ai margini, non vi è centralità né protagonismo, per riprendere l’esistenza a latere si gira dislocando, si raccolgono gli scarti, ci si ciba di momenti inessenziali, niente nella superficialità degli eventi è importante al punto che la controparte femminile viene impersonata da tre attrici diverse (tutte interpreti minglanghiane doc), ciò che diventa essenziale, perciò, è l’immagine, l’immagine che è Racconto, Attore, Senso, Mezzo, Fine, in una parola: Dio. A conti fatti, oggi, non si può fare altro che lavorare sulla sterminata potenzialità della particella elementare del cinema per poter partorire degli esemplari con una propria identità artistica. L’essere intransigente di Stray Dogs risiede nel rifiuto non solo delle banali grammatiche della commercialità, ma anche delle grammatiche passate di Tsai perché pur non essendo mai stato un regista facilmente digeribile prima di questa pellicola aveva sempre all’incirca fornito coordinate atte ad una lettura della diegesi, ora non sembra più interessato a farlo, Tsai mi pare sia sbarcato in un territorio molto più libero (e Walker [2012] e derivati lo dimostrano) dove semplicemente fa quello che vuole senza più curarsi del feedback spettatoriale.

A proposito di bellezza, per motivi a cui non sono riuscito ad arrivare ma che accetto con grazia, in Stray Dogs risulta fondamentale la presenza scenica degli edifici, siamo testimoni di un’assenza (Lee che dorme in una topaia con i due figli), di un miraggio (Lee che si intrufola in una villa e crolla addormentato sul letto) e di una meravigliosa concretizzazione metaforica: la casa della donna, resa esteticamente in modo straordinario, è la casa-cinema di Tsai, è come se la strada fino a quel momento percorsa dall’autore si concentrasse lì dentro, e tutta l’acqua scorsa durante i vari film fosse compenetrata in quelle pareti annerite, tutte quelle vite (in una sola vita: Hsiao-Kang) fluite nei muri dell’abitazione, i segni sono lacrime, (anche) quelle di Vive l’amour (1994).

Appurato il legame consanguineo tra Stray Dogs e tutti gli altri fratellini della famiglia, se c’è un nesso ancora più forte è quello con uno dei più sottovalutati film di Tsai ma che per quanto mi riguarda può fregiarsi di capolavorità: I Don’t Want to Sleep Alone (2006), altro lacerto d’Apocalisse, condivide con Jiao you un medesimo peregrinare urbano che trova una pseudo-catarsi nella fatiscenza di un luogo dismesso, parallelo delle vite dei due Hsiao-Kang. Vediamo che per entrambi i film nelle macerie si possono realizzare/intravedere delle chimere, nel film del 2006 si trattava di una farfalla, in quello del 2013 di un murales rappresentante un sereno paesaggio. Ovvio che in Stray Dogs la presenza di questo grosso disegno e il corrispettivo rapporto con i due esseri umani che gli si trovano di fronte assume un ruolo fondamentale, e a questo punto è obbligatorio fare riferimento al finale, un finale che è già diventato leggenda poiché settato per la sfida estrema: mostrare il non vedibile, l’emozione primigenia che nasce dalla visione: L’Uomo e La Donna al cospetto del Grande Schermo, dell’Immagine, di Dio, e la loro esperienza profondamente intima (gli occhi lucidi), che è la nostra medesima esperienza al cospetto di quello che dovrebbe farci vivere il cinema: estasi, estasi, estasi! E l’uscita di scena dei due, alla fine, non fa che sottolineare la cruciale posizione del vedibile, lo schermo e quello che c’è dentro. Se c’è una fine, è solo per l’Umano, il cinema, comunque, resta.

2 commenti:

  1. come sempre sei bravissimo..me lo guardo

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  2. Cerco, come ho fatto in questi anni, di essere una protesi della visione. è il film che conta, non le mie parole.

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