Anche un piccolo cineblogger come il sottoscritto può godere ogni tanto di personalissime soddisfazioni. Soprattutto quando si prende la briga di ripercorrere la filmografia di un regista senza un criterio temporale, piuttosto seguendo il sempre gettonato metodo canino peniforme. E così, nemmeno dopo un minuto dall’inizio del film, ho un po’ sorriso tra me e me compiacendomi del fatto che quello scroscio di pioggia a bagnare i titoli iniziali lo avevo già sentito nello Tsai del futuro, ma essendo questo il suo primo lavoro – in realtà non lo è perché ci sono ben due pellicole che precedono ma voi fate finta di nulla – il cioccare continuo delle gocce assume un significato più intenso che compatta una poetica coerente con se stessa in ogni manifestazione che verrà. A volte perfino pedante nell’omissione perpetua dei vitali elementi filmici, eppure ficcante, lesiva, dolorosa.
Con Rebels of the Neon God (1992), laddove il Dio Neon sarebbe Nezha, una divinità-bambino della mitologia cinese famoso per la sua disobbedienza e ribellione nei confronti del padre che vorrebbe uccidere senza riuscirci, Ming-liang spalanca il sipario sul vuoto mondo orientale. Della già citata ossessione per l’acqua, il regista propone l’attore onnipresente sempre con lo stesso nome: Hsiao-Kang interpretato da Lee Kang-sheng, la maschera più triste di Taiwan. Anche il padre sarà lo stesso de Il fiume (1997), The Hole (1998) e Che ora è laggiù? (2001), e stesso discorso per la madre escluso Il buco, a testimonianza di una precisa strada intrapresa dal regista perfino nella scelta degli attori, creando così un microcosmo che fa della sua monocromia, addirittura gli interni casalinghi sono pressoché identici, l’arma letale per distinguersi dalla massa.
Ovviamente ci sono qui delle manchevolezze dovute ad un esordio. Non fraintendetemi però, le assenze da registrare riguardano più che altro l’usus scribendi di Tsai piuttosto che delle carenze ad un livello globale dato che il film, è un buon film. Tuttavia quasi sorprende la scelta decisamente anti-tsaiana di utilizzare una colonna sonora che entra ripetutamente in scena, cosiccome fa un po’ specie l’abbondanza di dialoghi che sostituiscono i lunghi e silenziosi piani sequenza prossimi, i quali comunque sussistono in scala ridotta anche qua.
Ma è tutta la storia nell’insieme ad essere maggiormente dinamica. La mdp si sposta con più frequenza da un ambiente all’altro, da un personaggio all’altro, evitando di ritrarre solo ed esclusivamente la solitaria esistenza del povero Lee. Una scelta coraggiosa che mette ogni volta a dura prova la pazienza dello spettatore, riuscendo comunque a regalare qualche bella istantanea di cinema. Su tutte la scena in cui i due teppistelli portano la ragazza ubriaca in hotel e invece di approfittarne sorprendentemente la lasciano dormire sul letto. Una mossa spiazzante di Tsai che ho apprezzato, al pari della rabbiosa invidia di Hsiao-Kang che sfoga tutta la sua frustrazione sulla moto del ladruncolo con seguente balletto in segno di vittoria, per poi subire la comune sconfitta nel finale.
Potrei dire che Rebels of the Neon God sia un film meno tsaiano di quanto ci si aspetti sebbene ponga gli stessi interrogativi del futuro. La patina d’essai è più trasparente, e questo implica una veste autoriale di tono minore. Ne guadagna la fruibilità, il che non è mai una brutta cosa.
Con Rebels of the Neon God (1992), laddove il Dio Neon sarebbe Nezha, una divinità-bambino della mitologia cinese famoso per la sua disobbedienza e ribellione nei confronti del padre che vorrebbe uccidere senza riuscirci, Ming-liang spalanca il sipario sul vuoto mondo orientale. Della già citata ossessione per l’acqua, il regista propone l’attore onnipresente sempre con lo stesso nome: Hsiao-Kang interpretato da Lee Kang-sheng, la maschera più triste di Taiwan. Anche il padre sarà lo stesso de Il fiume (1997), The Hole (1998) e Che ora è laggiù? (2001), e stesso discorso per la madre escluso Il buco, a testimonianza di una precisa strada intrapresa dal regista perfino nella scelta degli attori, creando così un microcosmo che fa della sua monocromia, addirittura gli interni casalinghi sono pressoché identici, l’arma letale per distinguersi dalla massa.
Ovviamente ci sono qui delle manchevolezze dovute ad un esordio. Non fraintendetemi però, le assenze da registrare riguardano più che altro l’usus scribendi di Tsai piuttosto che delle carenze ad un livello globale dato che il film, è un buon film. Tuttavia quasi sorprende la scelta decisamente anti-tsaiana di utilizzare una colonna sonora che entra ripetutamente in scena, cosiccome fa un po’ specie l’abbondanza di dialoghi che sostituiscono i lunghi e silenziosi piani sequenza prossimi, i quali comunque sussistono in scala ridotta anche qua.
Ma è tutta la storia nell’insieme ad essere maggiormente dinamica. La mdp si sposta con più frequenza da un ambiente all’altro, da un personaggio all’altro, evitando di ritrarre solo ed esclusivamente la solitaria esistenza del povero Lee. Una scelta coraggiosa che mette ogni volta a dura prova la pazienza dello spettatore, riuscendo comunque a regalare qualche bella istantanea di cinema. Su tutte la scena in cui i due teppistelli portano la ragazza ubriaca in hotel e invece di approfittarne sorprendentemente la lasciano dormire sul letto. Una mossa spiazzante di Tsai che ho apprezzato, al pari della rabbiosa invidia di Hsiao-Kang che sfoga tutta la sua frustrazione sulla moto del ladruncolo con seguente balletto in segno di vittoria, per poi subire la comune sconfitta nel finale.
Potrei dire che Rebels of the Neon God sia un film meno tsaiano di quanto ci si aspetti sebbene ponga gli stessi interrogativi del futuro. La patina d’essai è più trasparente, e questo implica una veste autoriale di tono minore. Ne guadagna la fruibilità, il che non è mai una brutta cosa.
Nessun commento:
Posta un commento