Un uomo e una ragazza dispersi in una zona franca in bilico tra il mare ed il deserto.
Il naufragio. E poi un vento costante che seguirà tutto il film, nell’ombra come un’ombra.
Il quinto film di Bartas continua laddove si erano fermati i suoi predecessori: dentro la parola biascicata, fotografando lunghi istanti di vuoto, sguardi ipnotizza(n)ti, buio che fa affiorare e/o sprofondare vite. Dal limbo di The House (1997) si passa ad un altro nulla che nell’ariosità del paesaggio sconfinato si libera, perlomeno, del poco attraente fardello pieno di sofferente claustrofobia, perché sebbene Šarūnas sia il solito Šarūnas, con Freedom (2000) sussiste la possibilità di assistere a riprese naturalistiche dal grande potere suggestivo. Da vedere l’ordinato respiro del mare nel suo continuo divenire, cosiccome è ammaliante la location tutta, si tratta del Marocco, attraverso cui Bartas edifica l’ennesimo dramma imperscrutabile, laddove una lingua di sabbia diventa l’anticamera dell’al di là. Piccola, immensa, sala d’attesa dove non c’è uscita se non quella che porta alla grande consolatrice.
La libertà è una chimera per i due protagonisti. La fuga pura utopia. Lo si comprende (per modo di dire) negli occhi bicolore, ma spenti, dell’uomo, e negli infiniti primi piani che raccolgono ogni minimo sospiro della ragazza. In quel non-tutto che dà corpo al film, dove per un’ora e mezza non succede niente, eppure si avverte comunque che qualcosa di brutto sia già capitato o stia per capitare, inevitabilmente.
Anche la parola si fa impossibile, bartassianamente declinata.
Il regista forse oltrepassa i confini diegetici quando le domande poste alla ragazzina sembrano rivolte più allo spettatore che a lei medesima:
“Come ti chiami?”
(Io sono Eraserhead)
“Perché mi guardi?”
(Perché non deve esserci sempre un motivo, perché mi andava, perché sono ancora libero di guardare quello che voglio)
Senza possibilità di fuggire, senza possibilità di incontrarsi nel dialogo, non rimane che la fine della vita per l’uomo. Conclusione che si dilata in un finale oltremodo bello, ma sempre complicatissimo da assorbire, nel quale viene captato l’unico gesto umano della pellicola (una carezza), e probabilmente di un’intera filmografia, che non basta però a riempire i vuoti incolmabili di un’esistenza sbagliata. Resta imperturbabile la natura, protagonista indiscussa come nel miglior Herzog [1], a osservare in un silenzio ultraterreno l’epilogo di una storia. Ma poco prima che ciò che deve accadere accada, Bartas ci parla per l’ultima volta:
“Non-lasciarmi-qui”
(No, non lo farò! Ti porterò con me nonostante tu sia stata una visione ardua. Ti porterò via da quel deserto nel ricordo, credimi.)
________
[1] Interessante notare di come il finale assomigli molto a quello di Cobra Verde (1987) per un angolo di visuale simile, ma diametralmente opposto, e per il soggetto ripreso: un’ombra informe agonizzante sulla battigia.
Inoltre alcuni campi totali fuori fuoco riportano a Fata Morgana (1971).
Il naufragio. E poi un vento costante che seguirà tutto il film, nell’ombra come un’ombra.
Il quinto film di Bartas continua laddove si erano fermati i suoi predecessori: dentro la parola biascicata, fotografando lunghi istanti di vuoto, sguardi ipnotizza(n)ti, buio che fa affiorare e/o sprofondare vite. Dal limbo di The House (1997) si passa ad un altro nulla che nell’ariosità del paesaggio sconfinato si libera, perlomeno, del poco attraente fardello pieno di sofferente claustrofobia, perché sebbene Šarūnas sia il solito Šarūnas, con Freedom (2000) sussiste la possibilità di assistere a riprese naturalistiche dal grande potere suggestivo. Da vedere l’ordinato respiro del mare nel suo continuo divenire, cosiccome è ammaliante la location tutta, si tratta del Marocco, attraverso cui Bartas edifica l’ennesimo dramma imperscrutabile, laddove una lingua di sabbia diventa l’anticamera dell’al di là. Piccola, immensa, sala d’attesa dove non c’è uscita se non quella che porta alla grande consolatrice.
La libertà è una chimera per i due protagonisti. La fuga pura utopia. Lo si comprende (per modo di dire) negli occhi bicolore, ma spenti, dell’uomo, e negli infiniti primi piani che raccolgono ogni minimo sospiro della ragazza. In quel non-tutto che dà corpo al film, dove per un’ora e mezza non succede niente, eppure si avverte comunque che qualcosa di brutto sia già capitato o stia per capitare, inevitabilmente.
Anche la parola si fa impossibile, bartassianamente declinata.
Il regista forse oltrepassa i confini diegetici quando le domande poste alla ragazzina sembrano rivolte più allo spettatore che a lei medesima:
“Come ti chiami?”
(Io sono Eraserhead)
“Perché mi guardi?”
(Perché non deve esserci sempre un motivo, perché mi andava, perché sono ancora libero di guardare quello che voglio)
Senza possibilità di fuggire, senza possibilità di incontrarsi nel dialogo, non rimane che la fine della vita per l’uomo. Conclusione che si dilata in un finale oltremodo bello, ma sempre complicatissimo da assorbire, nel quale viene captato l’unico gesto umano della pellicola (una carezza), e probabilmente di un’intera filmografia, che non basta però a riempire i vuoti incolmabili di un’esistenza sbagliata. Resta imperturbabile la natura, protagonista indiscussa come nel miglior Herzog [1], a osservare in un silenzio ultraterreno l’epilogo di una storia. Ma poco prima che ciò che deve accadere accada, Bartas ci parla per l’ultima volta:
“Non-lasciarmi-qui”
(No, non lo farò! Ti porterò con me nonostante tu sia stata una visione ardua. Ti porterò via da quel deserto nel ricordo, credimi.)
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[1] Interessante notare di come il finale assomigli molto a quello di Cobra Verde (1987) per un angolo di visuale simile, ma diametralmente opposto, e per il soggetto ripreso: un’ombra informe agonizzante sulla battigia.
Inoltre alcuni campi totali fuori fuoco riportano a Fata Morgana (1971).
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