sabato 21 agosto 2010

The Road

Con The Road ho notato una cosa strana. Generalizzando: chi ha letto il libro di McCarthy ha parlato se non proprio male di certo non bene della trasposizione su pellicola, chi viceversa del romanzo non ne sapeva niente, ha speso belle parole sul film, in alcuni casi bellissime. Tutto ciò deposita in me interrogativi sparsi: cosa è giusto? Commentare un film per quel che è oppure compararlo all’opera da cui è tratto? Lo so che “giusto” o “sbagliato” non sono valori assoluti, eppure se io avessi letto il libro cercherei di evitare un confronto perché sono due canali di comunicazione che hanno tempi e modi differenti (e di questo faccio mea culpa quando trattai Noi due sconosciuti, 1960). Comunque, io il libro non l’ho letto, e ciononostante non riesco a parlarne benissimo.

La storia penso sia ormai risaputa: padre e figlio, due fiammiferi in un mondo di cenere, diretti verso il meridione. Una qualche apocalisse ha reso la vita sul pianeta molto più vicina alla morte; gli animali si sono estinti, gli alberi nudi crollano carbonizzati, la fame è culminata nel cannibalismo. La speranza non esiste, si pondera la salvezza in una pallottola sparata nel cranio: il genitore che insegna al suo pargolo come ci si deve uccidere è il momento maggiormente doloroso.
Per il resto lo scenario è pessimistico sì, però non sorprende, è già visto sebbene sia discretamente fatto. Forse è un limite del genere quello di gettare tot superstiti in paesaggi di desolazione abitati da temibili predoni, sta di fatto che anche The Road non scampa ad una struttura che vede sempre un momento di pace controbilanciato ad uno di paura, di terrore, di angoscia. Ogniqualvolta i due personaggi arrivano in un luogo, si fa spazio il presagio che tale quadretto idilliaco verrà inesorabilmente devastato. Diventa dunque prevedibile l’errare della coppia fin da subito, riducendo ogni movimento al passaggio di una schermata indipendente all’altra in cui confrontarsi con nuovi nemici, fisici e non. Per dare a Hillcoat quel che è di Hillcoat va detto che comunque il film a prescindere dalla sua omologazione al genere e ad una costruzione ripetitiva si fa seguire, senza entrare troppo in contatto con lo spettatore, ma perlomeno seguire sì.

Poi ci sono i flashback. Ricordi, sogni, del barbuto Mortensen che appartenendo al passato sono gli unici frammenti che sfuggono alla bicromia grigiastro marroncina del presente. In siffatti ritagli si vorrebbe plasmare la figura della madre, la sempre divina Charlize Theron, attraverso istantanee di vita felice, parentesi hot fuori posto e scaramucce coniugali. Nulla di male nel voler tratteggiare così il rapporto col marito, però questi salti nel passato non giustificano granché la decisione della donna di abbandonare la famiglia. Aborro gli spiegoni, ma sottolineare un po’ di più il suo malessere sarebbe stato meglio, mentre così risulta più che altro una forzatura ad hoc per il prosieguo della narrazione.
Altre due occasioni in cui ho storto il setto nasale sono: quando l’uomo e il bambino trovano la dispensa di un reggimento sottoterra e per qualche rumorino Viggo decide che è meglio portare via gli zebedei che tanto fuori ci sono solo orde di cannibali affamati. E poi quando senza motivo iniziano a crollare gli alberi avvizziti addosso ai due malcapitati. Per quale arcana ragione dei poveri arbusti rinsecchiti dovrebbero cadere di punto in bianco? La risposta è nella sceneggiatura, e nelle sue esigenze.

L’ipocentro è ovviamente il legame padre-figlio, i quali non avendo nomi, potrebbero, almeno teoricamente, essere generalizzati in termini universali. Addirittura spirituali vedendo nel sacrificio del padre una sorta di redenzione per l’umanità intera corroborata da un finale positivo così così. Peccato che l’amore tra il papà ed il bimbo faccia fatica a travalicare il recinto diegetico in cui è immortalato, e cosiccome ho letto altrove è difficile pensare che siano davvero padre e figlio.
Non so cosa manchi esattamente a questa coppia, o forse lo so ma sarebbero le solite stra(male)dette banalità tipo empatia, emozione, coinvolgimento. Dispiace per la triste sorte del babbo, tuttavia non fa davvero male, colpisce di striscio senza ferire. Ed essendo questo il piano di lettura più importante dell’opera non va affatto bene.

Credevo fermamente in un film migliore, evidentemente non avevo messo in conto i limiti che il genere post-atomico ha insiti dentro di sé. Anche se forse non esistono limiti nel cinema, solo registi limitati. Alla fine l’unico veramente contento di The Road sarà il Signor Dal Monte, che se mi esplode un fungo atomico vicino a casa vado subito a fare rifornimento dei suoi succhi!

1 commento:

  1. dunque..premesso che ho letto il libro,ma che non si paragona mai un libro con un film,dato che si tratta di 2 tipi di fruizione troppo diversi..parliamo del film..bruttino,bruttino assai..sensazione..siamo a metà strada fra un film non di cassetta ed uno di cassetta...col risultato di non accontentare nessuno.i flashback son deleteri,secondo me..la figura feminile,pura invenzione del film,dato che nel libro non ve n'è traccia,pare appunto la classica concessione di cassetta..il libro,pur non essendo il migliore di mccarthy,non certo ai livelii,per dire,di oltre il buio,è piuttosto bello,il film è la classica occasione persa

    RispondiElimina