Chi pensava che prima di
Waste Land (2010) il cinema non si fosse mai inerpicato su per
le colline di immondizia della discarica brasiliana di Jardim
Gramacho, deve fare i conti con Estamira (2004), documentario
carioca diretto da Marcos Prado che rispetto alla collega Lucy Walker
si rivela molto più ruvido nell’area delle riprese, non si
tratta di mancanza di professionalità (forse il vero e unico
scarto è dato dalla qualità dei mezzi tecnici
utilizzati) bensì di una precisa scelta registica che tende
più che può al reale diventando quasi un filmino
vacanziero in un posto dove però nessuno trascorrerebbe le
ferie: nuovamente (ma con una carica invasiva maggiorata) ci troviamo
in un paesaggio apocalittico, tremendo, nauseabondo, immenso cestino
dei rifiuti in continua espansione grazie ai camion che arrivano e
rovesciano i propri fetidi carichi, zona franca capace di raccogliere
gli scarti dell’uomo e gli uomini scartati dalla società
(vivi e non) che lì dentro lavorano, mangiano, dormono mentre
intorno a loro proliferano cani randagi, fuochi luciferini, gas
sospetti, pozze miasmatiche dalla preoccupante ed assidua
ebollizione. Sì, la cartolina infernale che giunge dalla
discarica di Rio de Janeiro, immortalata da Prado all’incirca un
decennio prima di Walker, è quello che forse non ci si
attendeva, e rivelandosi così grezza e sgraziata perde di
qualunque filtro per manifestarsi nella sua naturalezza, tremenda e
allucinante.
Ma che lo si creda o no
una volta appurato il contesto, il film di Prado smentisce le
supposizioni che lo vorrebbero esclusivamente come lavoro di denuncia
o ritratto sociale della totale povertà, penetrando nella vita
di Estamira, catadores storica dal passato travagliatissimo,
prende le distanze dagli obiettivi descrittivi tracciando un arco
veramente ampio che comprenderà anche la disgrazia della
miseria vissuta e raccontata da diversi testimoni e parenti di
Estamira, ma che sa andare oltre trasformandosi in opera ibrida (ne
valgano come esempio quelle immagini-inserto in un granuloso bianco e
nero), calderone di suggestioni e riflessioni prodotte da un’unica
fonte: Estamira, una donna con alle spalle due matrimoni falliti, tre
figli, violenze di vario genere, stupri, che come uno tsunami
disserta con fervore su questioni che sembra impossibile possano
uscire dalla sua bocca sdentata. Perché Estamira parla di
quella complessità che sostanzia l’esistenza del nostro
pianeta, lo fa in maniera scombiccherata infarcendo ogni proposizione
di pennellate fuori da qualunque schema (le comete, il padre-astrale,
il controllo remoto) dimostrando da una parte i gravi problemi
psichici di cui è sia afflitta che consapevole, e dall’altra
una sorta di logica follia che la rende una predicatrice in una valle
di cenere dove le uniche orecchie che stanno ad ascoltarla sono piene
di alcool fino ai timpani.
È ovvio che
l’Estamira che inveisce contro dio o che si smarrisce negli
intercapedini del suo cervello dicendo di essere diabolica ma mai e
poi mai perversa, sputacchiando e sbarrando gli occhi, è il
risultato di un percorso esperienziale indicibile, mostruoso, il che
la fa assomigliare ad un altro detrito-umano spiato dal cinema come
la Vanda Duarte di Pedro Costa, anche Estamira è una vittima
della miseria, del raccattare tra la spazzatura del cibo sott’olio
e sostenere che sarà buonissimo una volta cucinato, con la
basilare differenza che l’emarginata brasiliana ha saputo
costruirsi una corazza capace di sondare ciò che in fondo
riguarda noi tutti, filosofeggiando con teorie disarticolare e
incomprensibili, profeta di favela senza discepoli, un Ulisse
spiantato che urla “non posso venire ora” alle sirene immaginarie
di un mare furibondo.
Estamira Gomes de Souza è
morta il 28 luglio del 2011, la discarica di Jardim Gramacho è
stata chiusa nel giugno 2012.
Nessun commento:
Posta un commento