È dai
tempi del magistrale Colossal Youth
(2006) che Pedro Costa ci racconta come Fontainhas, quartiere di
Lisbona popolato da immigrati capoverdiani, sia prossimo allo
sfacelo, eppure da quel film in poi ci sono stati molti altri lavori
del grande regista portoghese ambientati nel medesimo luogo, tanto da
domandarsi se questa porzione urbana ormai ridotta ad una baraccopoli
non sia diventata uno spazio astratto che non esiste più nella
realtà oltre lo schermo ma che, di contro, esiste nel mondo
costiano, configurandosi quindi come una geografia filmica ad alto
tasso distintivo, basta un fotogramma, uno sguardo, un volto per
capire dove siamo. A dar man forte alla mia supposizione c’è
un’intervista (link) in cui Costa asserisce di aver girato Vitalina
Varela
(2019) nella vera casa della protagonista che si trova a Cova da
Moura, una zona della capitale portoghese abitata principalmente da
persone di origine africana, ma per quanto ne possiamo sapere, quei
vicoli, quelle grondaie arrugginite, quei tetti sfondati, e ogni
angolo, o gatto o fantasma o penombra umida ci riporta a Fontainhas,
a Vanda Duarte, a Ventura. Insomma, sembra chiaro al sottoscritto che
Costa ha creato un abisso cinematografico specificatamente suo, un
presepe eternamente immerso nelle tenebre che, a prescindere dallo
scorrere del tempo, ammesso che scorra davvero perché il suo cinema
oltre ad essere aspaziale è fortemente atemporale, ristagna sempre
lì, esattamente dove Ossos
(1997), In Vanda’s Room
(2000), Colossal Youth
(2006), O Nosso Homem
(2010) e Cavallo Denaro
(2014) esistono senza un prima o un dopo in una dimensione che sa di
requiem
eterno.
Ma
quale è e di chi è la memoria che si onora in questa liturgia
funebre? Per Vitalina Varela
è fin troppo facile individuare nel marito deceduto (ah: ma come è
morto questo povero uomo? Perché quei tizi all’inizio tolgono dal
letto delle lenzuola sporche di sangue?) il fulcro commemorativo, le
cose stanno effettivamente così: con l’arrivo della donna in
Portogallo, a suo modo Costa le e ci fa ripercorrere una vita fatta
di indicibile amarezza, sono infatti di una potenza inaudita i
monologhi di Vitalina (o magari dialoghi sordi con lo spettro del
marito) dove racconta come è stato complicato il rapporto con il
coniuge Joaquim, della fuga di quest’ultimo a Lisbona e della
difficoltà tipica di chi versa in condizioni deficitarie, quella di
tirare avanti. L’elegia dell’uomo, in un film che, tra l’altro,
pullula di figure maschili lasciando a Vitalina un ruolo quasi
residuale, da outsider in una realtà di outsider, è il film stesso,
è una lunga messa che oscilla tra il sacro ed il pagano recitata in
punta di ricordi e scossa da una rabbia femminile che è un
terremoto, una scossa che per via della complicata conformazione
dell’animo umano contiene anche dell’amore. Tutto vero e tutto,
per quanto mi riguarda, meraviglioso, eppure non è davvero tutto,
perché a questo punto della carriera di Costa possiamo dire con una
certa sicurezza che quella memoria che torna e ritorna nel ciclo di
Fontainhas non è individuale, è collettiva, è una matassa
originatesi, forse inconsapevolmente, nel debutto Casa de Lava
(1994), e che si è protratta di pellicola in pellicola raccogliendo
il gigantesco fascio di sentimenti emanato da cristi spiantati che
hanno lasciato casa in cerca di un futuro migliore, e allora ecco
che, se non ve ne eravate accorti, ogni manifestazione artistica del
lusitano è il grido universale dell’immigrato, l’esplorazione
silente del suo trascorso, l’autopsia del presente, la chimera di
un futuro in costante ritardo.
Legato
soprattutto a Cavallo Denaro
per via di una specie di scambio di ruoli, nell’opera del ’14
Vitalina aiutava Ventura nelle vesti di lontana parente mentre in
quella del ’19 è Ventura nei panni di un prete che si impegna a
darle una mano, Vitalina Varela
si
asciuga forse delle stordenti graffiate oniriche che caratterizzavano
il film precedente, tuttavia il reale di Costa non è una banale
registrazione degli eventi, c’è molto di più nelle immagini che
propone, e non è solo il sublime apparato estetico (per non dire di
quello acustico) che ci regala la più fulgente trasposizione in
video di Caravaggio, è piuttosto la meta formale dove il portoghese
arriva, una sorta di iperrealismo traboccante di spiriti neri dalle
sembianze umane o viceversa. Non ci si può nascondere, qui stiamo
parlando di un’esperienza visiva e mentale senza pari, di un tuffo
nell’ombra più densa che potete immaginare per giungere alla
conclusione che no, non vi aspettavate che il cinema potesse scendere
così tanto nelle atre profondità dell’umano, nel midollo scuro e
lercio dove, per forza del contrasto, si annida l’abbacinante
splendore della bellezza: centesimo minuto o giù di lì, Vitalina
aggiusta il tetto della catapecchia con alle spalle un cielo in
tempesta dipinto da un qualche artista romantico, cambio scena e una
giovane donna di colore, mai vista fino a quel momento, è seduta su
un letto mentre un uomo le dà la schiena, la donna esce
dall’abitazione, il vento fischia forte accarezzandole la gonna,
intorno a lei delle montagne brulle che non sono di certo il barrio,
né Lisbona, né l’Europa. Siamo altrove. Nel ricordo, nel passato,
siamo dove non ci aspettavamo di essere dopo un’ora e passa di
claustrofobico reale. Dove la letteralità non ha asilo, dove un accostamento tra due immagini è la crepa che fa straripare
la diga. Ed è semplicemente bellissimo.
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