Di tutti gli
innumerevoli generi affrontati da Sion Sono in altrettante
innumerevoli opere, ce n’è uno che nell’incontrollabile marasma
generale si è ritagliato un ruolo tutto suo: quello del film dentro
al film, che capisco non sia definibile come genere tout court ma che
comunque detta una serie di connotazioni evidenti nelle quali si
ravvisa un pattern sononiano
forse retaggio direttamente autobiografico, perché ognuno di questi
esemplari filmici vede, ancor prima di potenziali riflessioni meta
(che a Sono non interessano poi così tanto), la riscrittura della
propria carriera, soprattutto la parte riguardante gli anni della
giovinezza pieni di speranze e voglia di fare, di volta in volta Sono
ha affidato la parte di se stesso a qualche imberbe ragazzino con il
pallino del cinema che, sempre circondato da una troupe al limite del
circense, si mette a girare con in mano una videocamera storie e
situazioni in pieno Sono-style. Magari dimenticherò alcuni titoli,
di certo nei seguenti, chi più, chi meno, ci sono innumerabili conferme: Jitensha toiki (1990),
Into a Dream (2005),
Why Don’t You Play in Hell? (2013),
Antiporno (2016) e ora
anche Ai-naki mori de sakebe
(2019). Sicché la domanda si profila secca e necessaria: era davvero
indispensabile riproporre nuovamente l’ennesima minestrina dal già
visto impianto? Ovviamente no, e infatti mi sentirei di urlare un
grosso BASTA a Sono, a cui seguirebbero altri basta del tipo: basta
all’imperterrito overacting degli interpreti in scena, basta alle
famiglie disfunzionali che attraverso il ciclo parossistico passano
da persone normali a pazzi scatenati, basta a Mitsuko, basta ad
un’effettistica da b-movie, eccetera eccetera, se non che una tale
“protesta” si scontra con la realtà dei fatti, che poi è, o
potrebbe essere, un’attenuante che val la pena rimarcare.
Sì
perché The Forest of Love è
la prima produzione di Sono distribuita da Netflix (e ricordo che
giusto qualche anno prima il [fu?] Signore del Caos era finito nello
streaming di Amazon con la serie Tokyo Vampire Hotel,
2017), e quindi verrebbe da pensare che, nell’ottica di una
smisurata accessibilità garantita dalla piattaforma californiana,
Sono abbia optato di fare una pellicola-compendio del suo cinema.
Poiché comunque, oltre al discorso giovani-registi-in-erba, The
Forest of Love è, con tutti i
pregi e i difetti immaginabili, un film che anche un cieco
attribuirebbe al regista giapponese, non so se l’alta
riconoscibilità si possa considerare come un plus ma questo è
quanto, e, nello specifico, è tanto,
come da tradizione è tutto tanto, a partire dall’etichetta in cui
inquadrare la faccenda, è un teen-romance dalle sfumature pink?
È un crime con serial killer e vittime designate da un albo
scolastico? È una commedia che ha ipocentro nell’imbroglione Joe
Murata? È un dramma che sfocia nello splatter (e mi raccomando, i
manichini di cartapesta non facciamoceli mancare)? È una sorta di
coming of age dove la crescita di Mitsuko è una scala fatta di
gradini esasperati? Che domande banali! È palesemente
un frullato che mischia queste cose e in cui ci sarà sicuramente
dell’altro che mi è sfuggito, e nel suddetto frullato una storia
si distende per un numero di minuti che non ci meritiamo, manca
equilibrio, la narrazione procede per folate, va in una direzione,
tipo: l’excursus su Murata e sulle sue doti da impostore, e poi ne
segue un’altra che mal si concilia, ancora: Murata si mette in
testa di fare il regista, così, dal nulla, giusto per far combaciare
la parte del playboy pervertito con quella dell’aspirante director, arrivati all'acme si ricade in e su un’idea di violenza che, seppur “forte”,
provocatoria o quel che si vuole, è strarisaputa e, appunto perché
conosciuta a menadito, priva di efficacia, infine si tenta un’impossibile
chiusura del cerchio facendo leva su un colpo di scena dove Sono sente l’obbligo di svelare il nome dell’assassino, rivelazione
superflua perché intanto la serie di omicidi non compenetra mai nel
filone principale.
La riflessione su The
Forest of Love è strettamente legata al mio trascorso spettatoriale in ambito Sono perché di lui ho visto molt(issim)o e ormai è un bel pezzo che non riesce
più a stupirmi (c’è stato solo il tenue brillio di The Whispering Star [2015] a
rinfocolare qualcosina), sarebbe più interessante allora sentire
l’opinione di chi del sedicente maestro è a completo digiuno,
potrebbero uscire commenti lusinghieri, gli stessi che avevamo
proferito ai tempi di Cold Fish
(2010), chissà! Nel frattempo aspettiamo ciò che era inevitabile
sarebbe accaduto: lo sbarco di Sion Sono in America (c’era già
stata una sortita con Hazard
[2005] ma
ora sarà diverso), è di
prossima uscita Prisoners of the Ghostland (2021),
primo film in lingua inglese che annovera nel cast nientepopodimeno
che Nicolas Cage. Ci sarà da ridere.
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