Dopo un 2015
tanto prolifico quanto dimenticabile (con l’eccezione The Whispering Star), Sion Sono
batte un colpo che ricorda, in primis a se stesso, di come sia ancora
un regista vivo con idee intriganti e con la relativa voglia di
metterle in pratica attraverso rotture, eruzioni e sana boria.
Anchiporuno (2016),
rimasticatura in chiave moderna (magari post?
Ma sì, intanto “postmoderno” non guasta mai) del pinku eiga,
genere dal quale Sono, come i più attenti ricorderanno, aveva già
attinto con Seigi no tatsujin: Nyotai tsubo saguri
(2000), è un’opera in cui si può carpire del potenziale, è
evidente, nonostante il clima altamente instabile in cui versa la
storia, che vi siano differenti strati sottotestuali e non importa
poi tanto se, alla fine, si ha la sensazione di non giungere ad una
conclusione definita, di certo è meglio poter accedere in un
labirinto di specchi che in una delle tante baracconate in stile
yakuza movie che hanno imbottito il suo più recente curriculum (vedi
Shinjuku Swan, 2015).
Un approdo direzionante è fornito dal titolo: perché quel prefisso
che oppone? Perché ostentare una posizione “contraria” alla
pornografia? Probabilmente il succo del film risiede nella risposta a
tali quesiti ma la risoluzione non può essere univoca, non ce la si
fa!, il furore di un tempo riaffiora adesso con maggiore misura e
controllo (minore è la violenza esplicita, superiore è l’anarchia
narrativa) ma sempre di un urto si tratta: veniamo colpiti da un fare
sregolato con la Donna in quanto Stella e una serie di Satelliti che
le orbitano attorno e che Sono mette a raffica sul palcoscenico
mischiando piani e annesse percezioni. È sempre la vecchia lezione:
se giunti al traguardo a generarsi sono più le domande che le
risposte allora siamo nel posto giusto.
Un
posto che, dal punto di vista diegetico, dà, forse per la prima
volta, una solida credibilità anche al comparto scenografico e alla
capacità di sapersi muovere in uno spazio fisico che, banalmente, è
anche psichico. Indubbio che in tutte le recensioni scritte o da
scrivere su Antiporno
sbucherà quella parolina palindroma di tre lettere che fa così:
pop. È un po’ inevitabile, la cromatura sgargiante del loft e
alcuni graffianti inserti estetizzano il girato rimandando a canoni
visivi assimilabili alla vaga etichetta summenzionata. Ce ne stiamo
sottolineando però che in passato con Keiko desu kedo
(1997) erano già stati interrati dei semi portatori di geometrie e
tinte ad alto impatto ottico (e poi qui la protagonista si chiede
proprio all’inizio se sia il suo compleanno o meno...). Con
Antiporno Sion tange
l’esasperazione all’incirca in ogni settore che va a sfruculiare,
e quello della patina esterna risalta in modo evidente solo perché è
la prima cosa che si coglie, può non piacere, e chi scrive non è
propriamente un fan accanito di tanto artificio, ma se ne riconosce
lo stile d’alto livello e l’audacia di proporlo e riproporlo fino
ad un allontanamento siderale da qualunque pretesa realista. Un
aggancio quasi politico è invece dato dall’insistere ogni due
battute sulla condizione femminile nella società giapponese, si
profila dunque la medesima osservazione fatta sulla forma: Sono
persevera in una sorta di apologia femminea, tuttavia il rischio di
impartirci una morale indesiderata è mitigato dai continui
ribaltamenti scenici che ravvivano la possibile catechesi. Se poi
l’ennesima sortita nel mondo autoriflessivo che aveva già detto
abbastanza con Why Don’t You Play in Hell?
(2013) non risulta troppo derivativa per merito di un ritmo
incalzante e di una fusione insondabile tra reale, finzione, passato,
presente e sogno, allora ’sta volta Sono è davvero riuscito a
riacciuffare quegli improbabili equilibri che caratterizzavano il suo
cinema d’assalto.
Nel
tirare le fila vale la pena ritornare sulla negazione del titolo.
Nell’omaggio al genere softcore Sono dimostra un’ironia
ammirevole, nel suo film vi è ben poco di pruriginoso nonostante le
continue nudità e i dialoghi stupidi e sboccati, la morbosità
appiccicata come un adesivo attira-attenzione devia dalla vera
traiettoria del film, ma non per molto, l’imbuto nel quale prima o
poi si entra divelge l’atmosfera dissoluta per calarsi in una
profondità ben più fertile. Ecco dove potrebbe situarsi l’anti:
non vi è alcuna penetrazione fisica qui ma solo
mentale, l’atto sessuale non si compie perché la Donna non è un
contenitore ricevi-cazzo bensì un universo spaventoso e affascinante
che ribolle di paure e ossessioni.
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