Negli ultimi
tempi si sono registrati un paio di titoli biografici che pur
trattando soggetti registici differenti possiedono un substrato
similare poiché focalizzati su una concettualità commutativa, mi
riferisco ai compendi documentaristici dedicati a Béla Tarr (Tarr Béla, I Used To Be a Filmmaker, 2013)
ed a Sharunas Bartas (Sharunas Bartas: An Army of One,
2010), manifestazioni di cinema
che rispettano gli autori coinvolti, come spesso la cronaca ce li
descrive in entrambi i casi li vediamo refrattari e sfuggenti, due
entità lontane dai riflettori e da ogni forma di attenzione anche in
lavori che li vedrebbero al centro di essi, adesso a questo dittico
si potrebbe aggiungere Mr. X (2014),
un’altra
opera, al pari di quelle appena citate, firmata da una pressoché
esordiente di nome Tessa Louise-Salomé (ma recidiva avendo girato
poco prima Drive in Holy Motors,
2013) che si interessa ad una delle figure più eccentriche del
cinema europeo, quel Leos Carax che tutti i cosiddetti cinefili
conoscono molto bene e che in barba alle leggi del mercato centellina
i suoi film di decade in decade. L’approccio
di Louise-Salomé nei confronti di Sua Maestà Leos è un po’
il medesimo dei colleghi in erba alle prese con il loro pigmalione
ungherese e lituano, Carax non si vede quasi mai, si sentono un paio
di suoi interventi, vengono mostrate fugaci immagini d’archivio,
ma l’aura
ectoplasmica che lo circonda non è scalfita nemmeno in un film a lui
interamente dedicato. Bene, non troppo, non essendoci un
approfondimento del suo pensiero, del suo modo di intendere il
cinema, assistiamo ad una galoppata visiva attraverso tutta la sua
filmografia partendo da Boy Meets Girl (1984)
per arrivare ad Holy Motors
(2012).
Si
potrà eccepire che pur non essendoci un vero studio sull’arte
di Carax ci sono le pellicole prodotte negli anni a parlare per lui,
vero, ma quelle c’erano
e ci saranno per chiunque voglia farsi un’idea
in proposito, un’opinione
prettamente soggettiva priva di quei commenti esterni che invece
infagottano Mr. X,
perché ciò è: un collage di sequenze montate cronologicamente
inframezzato dalle considerazioni di illustri professionisti del
settore, legittimo e probabilmente anche
“giusto”
se si vuole rendere
merito ad un tizio che non avendo mai amato gli schemi ci ha fatto
innamorare di lui, però mi chiedo se è con un metodo del genere che
si può davvero esplorare la visione autoriale di chi ha fatto della
poliedricità un marchio di fabbrica, e marzullamente mi do anche la
risposta: no, non è la strada giusta perché ognuno di noi sa bene
le qualità di Carax e non vi è la necessità che Harmony Korine ci
dica quanto gli è piaciuto Rosso sangue (1986)
o che altri personaggi più snob di Carax stesso incensino
amabilmente il suddetto perché alla fine il documentario si
trasforma in un grosso spot pro-Carax che non aggiunge granché a
quanto già si sapeva, una specie di commercial
decisamente superfluo poiché la fama del signor Alexandre Oscar
Dupont è ben al di là delle chiacchiere da Cahiers. Per il
sottoscritto ci sarebbe una prassi parecchio più diretta per
effettuare un compito di ricerca: un tavolo, un posacenere, una
camera fissa su Carax e parole, tante ma tante parole, sue, non degli
altri.
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