Non era necessario un
film come Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker (2013)
perché più che un documentario sulla realizzazione de
Il cavallo di Torino (2011) è un’opera di spiccato
voyeurismo dove Jean-Marc Lamoure (all’improvviso, uno sconosciuto)
conscio dell’epicità del momento non può che
limitarsi a spiare il procedere del processo filmico, come un
guardone si fa piccolo piccolo mentre Tarr concerta insieme ai suoi
collaboratori l’andamento di quello che sarà il proprio capolinea
artistico. Guardando il lavoro di Lamoure mi è
sobbalzato alla mente, per motivi inspiegabili, anche se credo che ci
sia sempre una specie di ragnatela di fondo che unisce tutte le cose
che apprezziamo le quali restano connesse attraverso fili
lunghissimi, il divertente saggio di David Foster Wallace intitolato
David Lynch non perde la testa [1] dove lo scrittore americano
si infiltrava nel backstage di Strade perdute (1997) per
cogliere col suo occhio chirurgico i tic del set cinematografico, la
storia dice che Wallace, durante quei giorni, non riuscì mai
ad incontrare Lynch, il punto di massimo contatto fu vederlo pisciare
tra degli arbusti. Anche Lamoure non incontra mai Tarr, e non ci
prova nemmeno: ad esclusione di alcuni inserti discutibili che
sembrano girati in super 8 con annessi filosofeggiamenti
dell’ungherese, non vi è il tentativo di affrontare e
approfondire una poetica-mondo che ha segnato la storia del
contemporaneo, ci si limita alla contemplazione del metodo
professionale, alla comunque inevitabile presenza della finzione e
alla manipolazione quasi comica (gli uomini coi sacchetti pieni di
foglie secche e quegli ingombranti ventoloni). Niente di impensabile
se si conoscono un minimo le prassi tecniche di un film, e non per
niente i concetti più interessanti emergono quando ci si
allontana dal set di A torinói ló,
sicché nelle testimonianze della crew di Tarr si rintraccia un
commovente senso di appartenenza (la storia di Erika Bók è
la cosa più bella del film) e un’ammirabile condivisione di
vedute.
Quanto
detto non sta a significare che essere dei voyeur sia così
sbagliato. Se si prova un “piacere” nel guardare il dietro le
quinte del Cavallo di Torino
è quella curiosità che si traduce nella pulsione
scopica di vedere, di capire, di comprendere cosa c’è dietro
e dentro un capolavoro del cinema odierno. Qualcosa si riesce a
carpire, ma sono inezie che riguardano al massimo briciole del
Tarr-essere-umano (la presenza della fedele moglie e un bacetto sulla
guancia rubato da Lamoure) o del Tarr-regista
(l’attenzione durante le scene, la convivialità che
caratterizza il gruppo prima del ciak), ma in realtà, anche
dopo la proiezione di Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker,
restiamo inevitabilmente ciechi come nella scena della collina,
semplicemente non possiamo vedere oltre, certe luci, e certi bui non
sono catturabili da quelle biglie di acqua e tessuti che abbiamo
sotto la fronte e che separano il vedibile dal sentibile. E a
proposito della collina, che è un punto chiave e Lamoure
sembra darmi ragione aprendo e chiudendo lì, è un onore
avere l’opportunità di posizionarci, anche solo visivamente,
su di essa, alla fine in quel paesaggio verdeggiante con la casa
custodita da un uomo semplice mi è parso che questa storia
eterna cominciata nel ’79 con Nido familiare possegga
perfino un lieto fine.
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[1] Tennis, TV,
trigonometria, tornado. E altre cose divertenti
che non farò mai più;
minimum fax 2011.
Dai un'occhiata a questo corto se non l'hai già fatto , poi se hai voglia passa a leggere le mie impressioni, sono sicuro che ti colpirà :)
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=3plCwHXJVtI&t=467s