martedì 1 novembre 2016

Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker

Non era necessario un film come Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker (2013) perché più che un documentario sulla realizzazione de Il cavallo di Torino (2011) è un’opera di spiccato voyeurismo dove Jean-Marc Lamoure (all’improvviso, uno sconosciuto) conscio dell’epicità del momento non può che limitarsi a spiare il procedere del processo filmico, come un guardone si fa piccolo piccolo mentre Tarr concerta insieme ai suoi collaboratori l’andamento di quello che sarà il proprio capolinea artistico. Guardando il lavoro di Lamoure mi è sobbalzato alla mente, per motivi inspiegabili, anche se credo che ci sia sempre una specie di ragnatela di fondo che unisce tutte le cose che apprezziamo le quali restano connesse attraverso fili lunghissimi, il divertente saggio di David Foster Wallace intitolato David Lynch non perde la testa [1] dove lo scrittore americano si infiltrava nel backstage di Strade perdute (1997) per cogliere col suo occhio chirurgico i tic del set cinematografico, la storia dice che Wallace, durante quei giorni, non riuscì mai ad incontrare Lynch, il punto di massimo contatto fu vederlo pisciare tra degli arbusti. Anche Lamoure non incontra mai Tarr, e non ci prova nemmeno: ad esclusione di alcuni inserti discutibili che sembrano girati in super 8 con annessi filosofeggiamenti dell’ungherese, non vi è il tentativo di affrontare e approfondire una poetica-mondo che ha segnato la storia del contemporaneo, ci si limita alla contemplazione del metodo professionale, alla comunque inevitabile presenza della finzione e alla manipolazione quasi comica (gli uomini coi sacchetti pieni di foglie secche e quegli ingombranti ventoloni). Niente di impensabile se si conoscono un minimo le prassi tecniche di un film, e non per niente i concetti più interessanti emergono quando ci si allontana dal set di A torinói ló, sicché nelle testimonianze della crew di Tarr si rintraccia un commovente senso di appartenenza (la storia di Erika Bók è la cosa più bella del film) e un’ammirabile condivisione di vedute.

Quanto detto non sta a significare che essere dei voyeur sia così sbagliato. Se si prova un “piacere” nel guardare il dietro le quinte del Cavallo di Torino è quella curiosità che si traduce nella pulsione scopica di vedere, di capire, di comprendere cosa c’è dietro e dentro un capolavoro del cinema odierno. Qualcosa si riesce a carpire, ma sono inezie che riguardano al massimo briciole del Tarr-essere-umano (la presenza della fedele moglie e un bacetto sulla guancia rubato da Lamoure) o del Tarr-regista (l’attenzione durante le scene, la convivialità che caratterizza il gruppo prima del ciak), ma in realtà, anche dopo la proiezione di Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker, restiamo inevitabilmente ciechi come nella scena della collina, semplicemente non possiamo vedere oltre, certe luci, e certi bui non sono catturabili da quelle biglie di acqua e tessuti che abbiamo sotto la fronte e che separano il vedibile dal sentibile. E a proposito della collina, che è un punto chiave e Lamoure sembra darmi ragione aprendo e chiudendo lì, è un onore avere l’opportunità di posizionarci, anche solo visivamente, su di essa, alla fine in quel paesaggio verdeggiante con la casa custodita da un uomo semplice mi è parso che questa storia eterna cominciata nel ’79 con Nido familiare possegga perfino un lieto fine.
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[1] Tennis, TV, trigonometria, tornado. E altre cose divertenti che non farò mai più; minimum fax 2011.

1 commento:

  1. Dai un'occhiata a questo corto se non l'hai già fatto , poi se hai voglia passa a leggere le mie impressioni, sono sicuro che ti colpirà :)

    https://www.youtube.com/watch?v=3plCwHXJVtI&t=467s

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