venerdì 25 novembre 2016

Materia oscura

È lo stesso meccanismo de Il castello (2011) a sorreggere Materia oscura (2013), altro film della coppia D’Anolfi-Parenti che ha come target quello di portare a conoscenza una certa questione ma senza esaltazione alcuna, tentando un aggancio a quella strana cosa che è la realtà in rapporto al mezzo cinema. La certa questione è: sperimentazioni belliche presso il Poligono di Salto di Quirra, Sardegna orientale, praticamente una santabarbara a cielo aperto dove dal ’56 in avanti sono state testate le peggio cose che l’uomo in millenni di storia è riuscito a partorire: le armi. Grosse armi: bombe, missili, e altre pericolose schifezze. Dunque è vero che come nel Castello si procede attraverso un metodo che appaia la narrazione all’immagine, ma qui, va detto subito, mi pare si possa parlare di uno step oltre, forse è l’abbandono alla ciclicità imposta nell’opera precedente che forniva ancora delle coordinate orientative, o forse è lo sguardo di D’Anolfi (è sempre lui ad occuparsi delle riprese) sul territorio sardo, ben diverso dall’asetticità di un aeroporto, che richiama quella componente atavica della natura, di sicuro Materia oscura è di più, è uno scenario dove purtroppo si prende atto dello scontro fratricida tra l’ambiente e l’uomo che lo abita, ma chiaramente è un conflitto impari: laddove gli abitanti reagiscono nel modo più nobile ed alto che può esserci contro un’immotivata dimostrazione di forza: la resistenza, gli animali si deformano, muoiono, così come le persone. Nel mentre, e il finale-pietra-tombale ce lo rammenta, il cielo è sconquassato da assordanti esplosioni. A Salto di Quirra il mondo esplode.

Il cinema antiletterale di D’Anolfi e Parenti veicola immagini di ieri e di oggi creando dei vertiginosi cortocircuiti temporali che fanno stare male: ai video archivistici, al sibilo dei fotogrammi che scorrono muti e ai totem dalla coda infuocata che si alzano sul cielo isolano per poi deflagrare, rispondono subito dopo, in un passaggio che solo il cinema può regalare, due allevatori impegnati nel tentativo di allattare un vitellino moribondo, e qui, in una sequenza con camera fissa, si è testimoni di una silenziosa detonazione, ben più devastante di qualunque ordigno militare: la morte. In questo cappio di cause ed effetti presentati per quello che fattivamente sono, lo spettatore non può che addentrarsi nella selva dell’amarezza guidato da un cinema virgiliano: non ci sono più stelle da vedere, solo i frammenti incandescenti della bestialità umana dopo lo scoppio.

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