venerdì 27 aprile 2018

Sharunas Bartas: An Army of One

Per Guillaume Coudray, produttore francese non particolarmente attivo, il colpo di fulmine filmico fu The House (1997), e come dargli torto! A posteriori quell’opera rappresenta il Bartas più oltranzista di sempre, è un momento di fusione tra il reale e qualcosa che gli va oltre in cui il cinema si trasforma in un contenitore a(/i)spirante, ho rivisto A Casa qualche tempo fa, per pura coincidenza, e ammetto candidamente che all’epoca della prima visione non lo capii affatto, cosa che si è ripetuta anche alla seconda proiezione ma, vivaiddio, è proprio quella non-comprensione quasi indispensabile che attualmente chiedo alla settima arte ad essermi arrivata addosso per poi subitaneamente trascinarmi dentro, in uno spazio di fatiscenti memorie. Comunque, tralasciando le esperienze soggettive, Coudray una volta scoccata la scintilla si mise sulle tracce del misterioso lituano e dopo un po’ di tempo riuscì ad intercettarlo a Parigi, nemmeno il tempo di realizzare la situazione che si trovò catapultato nel bel mezzo della crew che di lì a poco avrebbe girato Freedom (2000), Sharunas Bartas: An Army of One (2010) è il personale resoconto di quest’esperienza a fianco di Bartas sebbene la vicinanza, come testimoniato da Coudray, in dieci anni di collaborazione non è mai stata tale, solo una confessione in camera nel giro di due lustri, e poi soltanto sfuggevolezza, silenzio, noncuranza.

Un po’ come farà Lamoure per Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker (2013), anche Coudray si limita più che altro a rubare sequenze dal dietro le quinte, a “spiare” Bartas intento a dare forme artistiche alle sue imperscrutabili elucubrazioni. Ci sono momenti dove possiamo ascoltare il Sharunas-pensiero, ma direi che non aggiungono poi molto a ciò che ci si può immaginare vedendo i suoi film, più che altro il documentario in questione si rivela un testo dal quale poter evincere informazioni più sull’uomo in quanto tale che sul regista barra autore. E qui Coudray scopre quella che potrebbe essere una piccola verità, ovvero che non sempre il personaggio che apprezziamo per le sue doti creative sia poi una persona altrettanto eccellente una volta smessi i panni “pubblici”, perché Bartas non ne esce granché bene da questo mediometraggio, e lo afferma lui stesso all’inizio: “io non sono affatto un pacifista”, più autoritario che autore (e il giovane francese sottolinea la vicinanza lessicale fra le due parole), sempre accigliato (mai, mai in trent’anni di carriera un sorriso) e apparentemente più interessato agli aspetti tecnico/logistici della realizzazione che a quelli concettuali (l’attenzione certosina verso le automobili), dell’uomo nato a Siauliai ci viene consegnato il ritratto di un pensatore snob, un biascicatore di parole che vive letteralmente nel suo cinema di ragnatele e stanze polverose (ecco Coudray che scippa appunti, che si intrufola nella sua camera da letto). Giudicare un essere umano attraverso uno schermo non è un atto brillante, ma almeno per chi scrive ciò che è giunto è: Bartas è lontano, lontanissimo da Dio e dagli uomini.

Verso la conclusione, che in termini temporali dovrebbe corrispondere al 2009 o il 2010, vediamo Sharunas in sala di montaggio insieme ai suoi assistenti al lavoro su Eastern Drift (2010), Coudray, incredulo, nota che il film assomiglia molto ad una pellicola di azione, come risposta riceve suppergiù la seguente affermazione: “io non ho mai inscatolato i miei film. Era la gente che li guardava a parlare di stile e altre cose simili. Io semplicemente mettevo insieme delle cose che unite funzionavano in un certo modo. Sì, forse sto cambiando un poco, ma credo che nei miei film non sono mai stati importanti i campi lunghi o il ritmo lento, quello che è sempre contato di più è la vita, l’anima, che non possono cambiare, qualunque sia l’etichetta esterna”. Subito dopo il francese, in assoluta soggezione nei confronti del suo mentore fin dalla prima inquadratura (“è capace di farmi sentire una merda”), sale nella soffitta dove sono ammassati alcuni oggetti dei film passati e scopre che lo strano abito indossato da Leos Carax in The House è sparito, checché ne dica Bartas stesso, anche alla luce di Peace to Us in Our Dreams (2015) e Frost (2017), qualcosa del suo cinema passato non esiste più.

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