Per Guillaume Coudray,
produttore francese non particolarmente attivo, il colpo di fulmine
filmico fu The House (1997), e come dargli torto! A posteriori
quell’opera rappresenta il Bartas più oltranzista di sempre, è un
momento di fusione tra il reale e qualcosa che gli va oltre in cui il
cinema si trasforma in un contenitore a(/i)spirante, ho rivisto A
Casa qualche tempo fa, per pura coincidenza, e ammetto
candidamente che all’epoca della prima visione non lo capii affatto,
cosa che si è ripetuta anche alla seconda proiezione ma, vivaiddio,
è proprio quella non-comprensione quasi indispensabile che
attualmente chiedo alla settima arte ad essermi arrivata addosso per
poi subitaneamente trascinarmi dentro, in uno spazio di fatiscenti
memorie. Comunque, tralasciando le esperienze soggettive, Coudray una
volta scoccata la scintilla si mise sulle tracce del misterioso
lituano e dopo un po’ di tempo riuscì ad intercettarlo a Parigi,
nemmeno il tempo di realizzare la situazione che si trovò catapultato
nel bel mezzo della crew che di lì a poco avrebbe girato Freedom
(2000), Sharunas Bartas: An Army of One (2010) è il personale
resoconto di quest’esperienza a fianco di Bartas sebbene la
vicinanza, come testimoniato da Coudray, in dieci anni di
collaborazione non è mai stata tale, solo una confessione in camera
nel giro di due lustri, e poi soltanto sfuggevolezza, silenzio,
noncuranza.
Un po’ come farà
Lamoure per Tarr Béla, I Used to Be a Filmmaker (2013), anche
Coudray si limita più che altro a rubare sequenze dal dietro le
quinte, a “spiare” Bartas intento a dare forme artistiche alle
sue imperscrutabili elucubrazioni. Ci sono momenti dove possiamo
ascoltare il Sharunas-pensiero, ma direi che non aggiungono poi molto
a ciò che ci si può immaginare vedendo i suoi film, più che altro
il documentario in questione si rivela un testo dal quale poter
evincere informazioni più sull’uomo in quanto tale che sul regista
barra autore. E qui Coudray scopre quella che potrebbe essere una
piccola verità, ovvero che non sempre il personaggio che apprezziamo
per le sue doti creative sia poi una persona altrettanto eccellente
una volta smessi i panni “pubblici”, perché Bartas non ne esce
granché bene da questo mediometraggio, e lo afferma lui stesso
all’inizio: “io non sono affatto un pacifista”, più
autoritario che autore (e il giovane francese sottolinea la vicinanza
lessicale fra le due parole), sempre accigliato (mai, mai in
trent’anni di carriera un sorriso) e apparentemente più
interessato agli aspetti tecnico/logistici della realizzazione che a
quelli concettuali (l’attenzione certosina verso le automobili),
dell’uomo nato a Siauliai ci viene consegnato il ritratto di un
pensatore snob, un biascicatore di parole che vive letteralmente nel
suo cinema di ragnatele e stanze polverose (ecco Coudray che scippa
appunti, che si intrufola nella sua camera da letto). Giudicare un
essere umano attraverso uno schermo non è un atto brillante, ma
almeno per chi scrive ciò che è giunto è: Bartas è lontano,
lontanissimo da Dio e dagli uomini.
Verso la conclusione, che
in termini temporali dovrebbe corrispondere al 2009 o il 2010,
vediamo Sharunas in sala di montaggio insieme ai suoi assistenti al lavoro su Eastern Drift (2010), Coudray, incredulo,
nota che il film assomiglia molto ad una
pellicola di azione, come risposta riceve suppergiù la seguente
affermazione: “io non ho mai inscatolato i miei film. Era la gente
che li guardava a parlare di stile e altre cose simili. Io
semplicemente mettevo insieme delle cose che unite funzionavano in
un certo modo. Sì, forse sto cambiando un poco, ma credo che nei
miei film non sono mai stati importanti i campi lunghi o il ritmo
lento, quello che è sempre contato di più è la vita, l’anima,
che non possono cambiare, qualunque sia l’etichetta esterna”.
Subito dopo il francese, in assoluta soggezione nei confronti del suo
mentore fin dalla prima inquadratura (“è capace di farmi sentire
una merda”), sale nella soffitta dove sono ammassati alcuni oggetti dei
film passati e scopre che lo strano abito indossato da Leos Carax in
The House è sparito, checché ne dica Bartas stesso, anche
alla luce di Peace to Us in Our Dreams (2015) e Frost (2017), qualcosa del suo cinema passato non esiste più.
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