Non nuovo a sortite nel campo seriale (la più recente è Minna! Esupâ dayo!
[2013] che diede poi i natali al compendio The Virgin Psychics,
2015), sono anni ormai che Sono, a parte alcuni rari casi, tende con una
sua coerenza ad aprirsi al pubblico meno esigente e quindi sembra
chiaro a chi scrive che il formato in oggetto è ideale per
incrementare una certa fidelizzazione degli spettatori che, magari, non conoscevano
il suo cinema. Ma per chi invece sa a menadito pregi e difetti del
pazzo giapponese, Tokyo Vampire Hotel (2017)
rappresenta l’esatta sintesi degli ultimi tempi: qualche spunto
interessante e tanti, davvero tanti capitomboli che mettono a dura
prova la voglia di proseguire la visione. Di queste dieci puntate
(nove se si considera l’ottava divisa in due parti) ho preso un A4
di appunti e rileggendoli le note che potremmo considerare positive
sono talmente poche da poter essere così snocciolate:
-
non si sa perché ma la questione dei compleanni imminenti è un
fatto a cui Sono è ricorso spesso da Keiko desu kedo
(1997) in poi. Vantaggi nell’economia globale? Non pervenuti. Però
c’è un senso di piacevole continuità autoriale
-
nel solito ping-pong tra cose ammirabili e altre al limite se non
oltre della vedibilità, Sono sa ancora piazzare qualche colpo di
livello. La carneficina del primo episodio pare superiore alle
(troppe) che seguiranno e non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno
tirasse in ballo Tarantino. Altri guizzi estetici si annidano in
anfratti filmici di contorno alla traccia principale, si guardi
l’orgia sanguinolenta tra gli esseri che vivono dietro la membrana
(è qualcosa equivalente alle bizzarrie di We Are the Flesh, 2017) o in piccoli
preziosismi come ad esempio la cromatura degli interni alberghieri
(presa pari pari dalle geometrie di Antiporno,
2016) che in talune scene mostra un pavimento con i colori della
bandiera rumena (al pari della sigla animata di apertura)
-
tra caotici parapiglia e composti narrativi da cartoon, emerge
forse qualche timido dardeggiamento alla società nipponica. Niente
che faccia spellare le mani dagli applausi, sia chiaro, però la continua
sostituzione dei genitori di Manami (Noriko’s Dinner Table [2005]?), il buffo
accoppiamento tra uomini e donne e l’idea di costruire una
relazione coatta in luogo protetto come l’hotel, permettono non
dico una definita lettura oltre l’immagine ma perlomeno una
parvenza di essa. In passato Sono aveva letteralmente violentato il
concetto di famiglia, adesso ci dobbiamo accontentare di qualche
timida stilettata in punta di fioretto
I
tre argomenti appena menzionati devono fronteggiare una serie di
brutture pressoché impossibili da arginare. Per il mio modo di
vedere l’aspetto che realmente infastidisce è che, porca miseria,
per l’ennesima volta siamo qui a raccontare di una guerriglia tra
bande rivali. I vampiri, che lo si sappia, non c’entrano niente. Se
si prendessero degli spezzoni di Tokyo Tribe (2014)
o Shinjuku Swan (2015)
per accostarli a quelli di Tokyo Vampire
Hotel ecco
che si avrebbe una perfetta sovrapponibilità: alla base permane un
banale pretesto (chi rappa meglio, chi procaccia più prostitute, chi
si accaparra la prescelta) e poi è solo grassa baraonda tra tizi che
se le danno per un tot di minuti dove si metterà anche in evidenza la
bravura di Sono e della sua esplosività artistica ma... sai che
noia? Tanto per dire: il settimo episodio comincia con un massacro
lungo un quarto d’ora, una pioggia di cervella spappolate e
decapitazioni che potrebbe esaltare al massimo qualche imberbe
ragazzino. Ergo: botte da orbi a manetta e stop. L’origine
dell’attenzione di Sono verso le faide tra gruppi opposti si colloca
in Bad Film (2012),
un’opera XL sgraziata e imperfetta che diceva tanto in materia e di
cui non avremmo voluto visionare nessun epigono.
Un
altro dato scoraggiante già indicato nei precedenti commenti e che
qui trova desolante conferma è un clamoroso abbassamento di quegli
standard qualitativi che dovrebbero essere sottintesi nel cinema
odierno. Prendiamo solo che la CGI illustrante l’allineamento a
croce dei pianeti o la porta dell’hotel che si apre su delle fiamme
in 8-bit, non ho altro modo di definire ciò se non con imbarazzante,
totalmente imbarazzante. E la Madre della mansione? Un ridicolo
pupazzo che fa sembrare quelli di Love & Peace (2015) delle creazioni di
Rambaldi? E l’improbabile cricca di vampiri rumeni con il capo
capelluto che si fregia di un comico amplesso sulla ruota panoramica?
No, è troppo, talmente troppo che a ’sto punto dovremmo forse
ricalibrare il taglio critico, magari mi sbaglio ma l’impressione è
che Sono abbia sconfinato nel trash, nella consapevole imitazione di
modelli più alti. Da tale angolazione allora tutto acquista un senso
diverso, si spoglia di velleità superiori per mostrare senza alcun
freno a cosa tende: un fumettone in movimento di serie Z.
Sicché questo manga popolato dal solito contingente di attori in
fibrillazione sononiana ha anche una trama che si articola tra il
Giappone e la Romania in cui l’ufficio complicazioni affari
semplici a cui Sono deve essersi appoggiato in fase di scrittura fa
di tutto per contorcere gli avvenimenti creando un pasticcio
confusionario che incamera una spropositata cifra di personaggi
dall’insignificante spessore. Che non sia troppo saldo l’impianto
narrativo ce lo suggerisce un finale in cui la storia arranca un po’ alla cieca, nell’ottava puntata avviene il salto temporale di
quindici anni in cui dal nulla si introducono nuove figure che
mai avevamo conosciuto (il cuoco e la bambina nata lì),
delegittimando la centralità di Manami (mi è sfuggito o non viene
spiegato perché perde la memoria?) e di conseguenza dell’ambaradan
a lei riguardante in favore di altre superflue tortuosità su cui
tenderei a soprassedere.
Scontato sottolineare che l’omonimo condensato presentato in
qualche Festival del globo terracqueo non avrà mai e poi mai il mio
sguardo. Né il mio tempo.
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