Stimolato dalla visione
di El somni (2008) il sottoscritto si è messo sulle tracce di
Christophe Farnarier e iniziando come di consueto la ricerca
filologica atta a stanare ogni manufatto possibile, il primo oggetto
successivo al film del 2008 a manifestarsi è stato proprio Le
premier rasta (2010), ma, sorpresa, Farnarier accreditato come
co-regista c’entra pochino nella realizzazione del progetto perché
lui in questo documentario si occupa essenzialmente delle riprese
mentre la mente che sta dietro a tutto è Hélène Lee, una
giornalista francese che Wikipedia inglese ci dice essere una
specialista della cultura giamaicana e dell’african music (link).
D’altronde era anche pronosticabile la non piena paternità di
Farnarier nei confronti di The First Rasta visto il suo
curriculum (ha collaborato con Albert Serra) e quella che si presume
sia la sua idea di cinema, ad ogni modo poco male: il film sotto esame ha dei motivi di interesse che pur non facendolo assurgere a
chissà quali vette mantiene costante una linea interna di
divulgazione che con grande semplicità mette a conoscenza chi è
all’oscuro di faccende come rastafarianesimo, la comune di Pinnacle
o il predicatore Leonard Howell.
Muovendosi su un
tracciato duplice Lee decide di affiancare alle riprese sul campo una
corposa base esplicativa con filmati d’archivio + voce narrante che
disegna il quadro socio-politico prima, durante e dopo l’avvento
del movimento rasta. La didattica, in situazioni del genere, sgomita
sull’afflato artistico ma nella fattispecie non pesa più di tanto,
è difatti parecchio istruttivo assistere allo srotolamento di un
gomitolo i cui fili intrecciati uniscono luoghi e tempi così
distanti e così opposti (l’Etiopia e la Giamaica), e affondando
nella terra scura e umida il filato diventa fibra e la fibra radice,
quella di un unico grande popolo. Tali informazioni, annesse a molte
altre (non dimentichiamo il dominio inglese e l’emarginazione dei
rastaman), seppur collocate in una cornice “da depliant” non
scadono in lezioncine scolastiche, quando la Storia parla avviciniamo
i pugni chiusi e poggiamoci sopra il mento in religioso ascolto.
Per quanto mi riguarda
un’accoglienza positiva verso degli inserti pressoché televisivi
nasce con ogni probabilità dalla sua naturale controparte, il nucleo
caldo dell’opera, che pur non impiegando mezzi stratosferici viene
trasmesso con limpida efficacia. Farnarier e Lee, banalmente,
immortalano le persone. Giustamente i primi piani sono quasi sempre
molto stretti perché negli occhi obnubilati dal tempo e dalla ganja
ci sono pozzi ricolmi di storie sulla via dell’oblio. Occhi
acquosi, nivei, lucidi e bocche sdentate dalle quali viene fuori un
inglese impastato che non ha mai smaltito il ceppo linguistico della
terra natia. Dalle testimonianze, di cui addirittura si potrebbe
prescindere poiché i silenziosi volti tricentenari annientano
qualunque parola, si palesa la bontà di The First Rasta perché
come sempre, quando l’Uomo è al centro, e quando se ne riesce, o
almeno si prova, a coglierne il profondo dell’animo, è più facile
aderire alla proposta, se poi quest’Uomo appartiene alla
categoria degli ultimi allora sentire dell’altro al di qua dello schermo diviene automatico.
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