Non è
un film attraente Svi severni gradovi
(2016), almeno non nel concetto che si ha comunemente di attrazione,
ciononostante il lungometraggio di debutto firmato da Dane Komljen,
nato in Bosnia e formatosi in Croazia, invita ad un’indagine, a
cercare risposte, confutazioni, chiarimenti. Alla base c’è sempre
il discorso per cui non siamo abituati a performance visive che
necessitano di una pazienza sottrattaci dal cinema diseducante, ed è
buffo perché se ci sono proposte davvero aderenti alla vita che
conduciamo queste hanno la paternità di Komljen o chi per lui e non
di tutti gli altri che popolano le sale oggidì. Quindi All
the Cities of the North si
colloca in un realismo impavido che taglia via i dialoghi (accessorio
che altrimenti avrebbe inquinato la naturalità della situazione) per
concentrarsi sul minimalismo di un’esistenza, anzi di due, che non
concedono niente a chi guarda: né spiegazioni né suggerimenti, del
prima o del perché nulla viene detto e così una parvenza di coppia
abita in quello che è un complesso alberghiero abbandonato. Stop. Le
radici sono perciò interrate in ciò che è nudo e crudo oltre
l’obiettivo, ma, tacitamente, ci sono anche delle ali, delle
aperture quasi avanguardistiche, forse oniriche, slanci subacquei (il
rumore delle onde è la prima cose che sentiamo) e osservazioni al
laser verde nella notte tetra. Spaesati troviamo approdo
nell’idea di spazio, Komljen
ne fa una materia di studio, addirittura, a suo modo, di narrazione
(i racconti di Lagos e Brasilia), spazio fisico, geografico, il vuoto
dello spazio riempito dalle fiamme, dai colori sgargianti. Ogni film
si occupa di spazio, Svi severni
gradovi un
po’ di più.
E poi
bisogna dire di questo trattenutissimo rivolo sentimentale, nei
commenti altrui si spinge sul fatto che l’arrivo del terzo incomodo
(interpretato dal regista stesso) altera l’equilibrio fino a quel
momento dominante. Il blitz dell’altro
si mimetizza a tal punto nel tessuto filmico che si fa fatica a
scorgerne l’ingresso al pari della destabilizzazione provocata,
tuttavia qui Komljen appare relativamente interessato alle dinamiche
umane riprese (non vi sono particolari scosse, ogni cosa continua a
scorrere in un alienato limbo) quanto al processo artistico che si
sviluppa tra l’estremo della finzione e quello della realtà. Un
altro contest tra le due istanze? Probabile. Di sicuro l’entrata in
scena del regista smuove teoricamente l’opera perché in
quell’istante assistiamo ad una rottura dell’impianto concreto
invaso dalla discreta presenza della crew intenta a riprendere lo
svilupparsi (?) del film. Il cortocircuito non porta ad una
detonazione autoriflessiva e non sembra nemmeno esserci delle fredda
didattica da parte di Komljen, anzi a prescindere dal fattore
concettuale permane tra le righe un tiepido calore che non ci
stupiremmo se avesse una spinta biografica, probabilmente non solo
riferita a Dane in quanto essere umano ma anche a Dane Komljen
cittadino di una zona, i Balcani, che è un complesso puzzle di Storia ed identità che noi dall’altra parte dell’Adriatico
conosciamo solo per sommi capi. All
the Cities of the North mormora
di questo e di altro ancora, un’energia inespressa lo fa
galleggiare in un confine tra l’etereo ed il corporeo, tra
Chavarría
Gutiérrez e
Castaing-Taylor & Paravel. Da vedere con attenzione.
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