sabato 9 giugno 2018

Nabat

Vista anche la vicinanza geografica, penso sia condivisibile ritenere Nabat (2014) un esemplare filmico appartenente a certe visioni della cinematografia turca recente, sebbene, e va sottolineato, l’opera di Elchin Musaoglu punti molto sul ritratto di una nazione, l’Azerbaijan, che arriva attraverso un quadro minimo,  presumibilmente la perfetta trasposizione di una realtà ben più vasta. Quindi, in una zona indefinita à la Nuri Bilge Ceylan, si calcifica la vita di una povera donna che nel giro di qualche giorno non ha più niente, e per proporre questa inesorabile avanzata verso i titoli di coda Musaoglu si avvale di un apparato altamente professionale, la predilizione è per traiettorie aeree dolci e avvolgenti, le costruzioni delle scene sono piuttosto elaborate e l’idea generale è che non vi siano movimenti esclusivamente virtuosistici, l’occhio del cinema in Nabat ha quasi sempre qualcosa da mostrarci alla fine di un pianosequenza (la foto mancante sul muro, quelle sparse nella casa del fotografo, il traliccio divelto). Vorrei però dirimere una questione forse fin troppo soggettiva ma che mi è rimasta qua: il film in oggetto è un film autoriale, eppure, al contempo, è come se non lo fosse abbastanza. Cioè, la forma che si modella in un’estetica cinefilmente interessante ed il “coraggio” di ammutolire tutta la seconda parte lasciando la sola vedova in scena, sono elementi che ispessiscono la firma del regista, a questi si accosta però un non riuscire a spingersi davvero laddove il cinema acquista una sua luccicante purezza, come se certi ingredienti intensificanti stonassero con la potenziale impostazione contemplativa, vedi, tanto per dire, l’utilizzo delle musiche. Se le mie parole risultano poco convincenti, allora si può portare ad esempio il fatto che Nabat fu opzionato per rappresentare l’Azerbaijan agli Oscar, poi le cose non andarono a buon fine perché questa è un’opera troppo lontana da quei territori, ma soltanto che averci provato può far capire meglio quello che intende il sottoscritto.

La prima porzione di Nabat è costituita dalla raffigurazione routinaria della donna, in sostanza Musaoglu ci trasporta nella quotidianità del villaggio, qui non accade granché e stando a suddetti preamboli ci si poteva immaginare il peggio, invece la pellicola ha una valida progressione, ciò accade perché, come sopraccitato, nell’altra metà il gioco si fa oltremodo duro ed il grande silenzio che ci avvolge diventa una sfida che comunque va accettata. Il merito di Musaoglu è stato innanzitutto quello sì di localizzare, ma anche di mantenere una cifra storica indefinita, anti-temporale, d’altronde potremmo trovarci in un qualunque Paese arabo in un qualunque periodo, la guerra, infatti, è una guerra, è il manifestarsi di una paura latente che prende corpo nelle deflagrazioni notturne. Inoltre, al pari de La quinta stagione (2012) ma con più “sincerità” e meno chiccheria, in Nabat abbondano molti simboli che ci preannunciano un’implacabile Fine, tra il ludico (la doppia ripresa: prima i frutti sull’albero, dopo sono a terra) ed il tarriano (no, Il cavallo di Torino [2011] non è accostabile, ma la mucca riporta alla mente qualcosa…), c’è l’intelligente sottrazione dall’esibire la Morte (tramutata in un funereo soffio di vento) insieme al parallelo (forse un pizzico didascalico) con la lupa bianca. In ogni modo, anche se generato da una matrice a tratti biasimevole, Musaoglu può ritenere raggiunti gli intenti preposti, alla fine del suo percorso quasi martirico (il candore, l’abbandono e il lucore della posa finale la appaiano ad una Santa come Camille Claudel 1915 [2013] di Dumont) Nabat giunge ai nostri cuori come l’ultima persona sulla faccia della Terra, e la scelta di farle accendere i lumi delle case abbandonate ha in sé un calore e un colore poetico, nostalgico, umano.

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