Vista anche la vicinanza
geografica, penso sia condivisibile ritenere Nabat (2014) un
esemplare filmico appartenente a certe visioni della cinematografia
turca recente, sebbene, e va sottolineato, l’opera di Elchin
Musaoglu punti molto sul ritratto di una nazione, l’Azerbaijan,
che arriva attraverso un quadro minimo, presumibilmente
la perfetta trasposizione di una realtà ben più vasta. Quindi, in
una zona indefinita à la
Nuri Bilge Ceylan, si calcifica la vita di una povera donna che nel
giro di qualche giorno non ha più niente, e per proporre questa
inesorabile avanzata verso i titoli di coda Musaoglu si avvale di un apparato altamente professionale, la predilizione è per
traiettorie aeree dolci e avvolgenti, le costruzioni delle scene sono
piuttosto elaborate e l’idea generale è che non vi siano movimenti
esclusivamente virtuosistici, l’occhio del cinema in Nabat
ha quasi sempre qualcosa da mostrarci alla fine di un pianosequenza
(la foto mancante sul muro, quelle sparse nella casa del fotografo,
il traliccio divelto). Vorrei però dirimere una questione forse fin
troppo soggettiva ma che mi è rimasta qua: il film in oggetto è un
film autoriale, eppure, al contempo, è come se non lo fosse
abbastanza. Cioè, la forma che si modella in un’estetica
cinefilmente interessante ed il “coraggio” di ammutolire tutta la
seconda parte lasciando la sola vedova in scena, sono elementi che
ispessiscono la firma del regista, a questi si accosta però un non
riuscire a spingersi davvero laddove il cinema acquista una sua
luccicante purezza, come se certi ingredienti intensificanti
stonassero con la potenziale impostazione contemplativa, vedi, tanto
per dire, l’utilizzo delle musiche. Se le mie parole risultano poco
convincenti, allora si può portare ad esempio il fatto che Nabat fu opzionato per rappresentare l’Azerbaijan
agli Oscar, poi le cose non andarono a buon fine perché questa è
un’opera troppo lontana da quei territori, ma soltanto che averci
provato può far capire meglio quello che intende il sottoscritto.
La
prima porzione di Nabat
è costituita dalla raffigurazione routinaria della donna, in
sostanza Musaoglu ci trasporta nella quotidianità del
villaggio, qui non accade granché e stando a suddetti
preamboli ci si poteva immaginare il peggio, invece la pellicola ha
una valida progressione, ciò accade perché, come sopraccitato,
nell’altra metà il gioco si fa oltremodo duro ed il grande silenzio
che ci avvolge diventa una sfida che comunque va accettata. Il merito
di Musaoglu è stato innanzitutto quello sì di
localizzare, ma anche di mantenere una cifra storica indefinita,
anti-temporale, d’altronde potremmo trovarci in un qualunque Paese
arabo in un qualunque periodo, la guerra, infatti, è una
guerra, è il manifestarsi di una paura latente che prende corpo
nelle deflagrazioni notturne. Inoltre, al pari de La quinta stagione (2012) ma con più “sincerità” e meno chiccheria,
in Nabat abbondano molti simboli che ci preannunciano
un’implacabile Fine, tra il ludico (la doppia ripresa: prima i
frutti sull’albero, dopo sono a terra) ed il tarriano (no, Il cavallo di Torino [2011] non è accostabile, ma la mucca riporta
alla mente qualcosa…), c’è l’intelligente sottrazione
dall’esibire la Morte (tramutata in un funereo soffio di vento) insieme al parallelo (forse un pizzico didascalico) con la lupa bianca. In
ogni modo, anche se generato da una matrice a tratti biasimevole,
Musaoglu può ritenere raggiunti gli intenti preposti, alla fine del
suo percorso quasi martirico (il candore, l’abbandono e il lucore
della posa finale la appaiano ad una Santa come Camille Claudel 1915 [2013] di Dumont) Nabat giunge ai nostri cuori come l’ultima
persona sulla faccia della Terra, e la scelta di farle accendere i
lumi delle case abbandonate ha in sé un calore e un colore poetico,
nostalgico, umano.
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