Breve storia di: un
ragazzino polacco, bande di quartiere e amori impossibili.
Tra i cortometraggi più
insulsi che mi siano mai capitati sotto gli occhi, Psubrat
(2013) - che in italiano vorrebbe dire “farabutto” (almeno così
sentenzia Google Traduttore) - di Maria Zbaska potrebbe essere una
sorta di remake di Męska sprawa (2001), stesso focus
(l’adolescenza in una Polonia difficile) e pressoché stessi
addendi per arrivare ad una somma simile (i branchi di
delinquentelli, il rapporto complicato coi genitori), però…
chebarbachenoia, il lavoro della Zbaska non dovrebbe nemmeno essere
definito lavoro, perché viaggiare col pilota automatico non è
guidare né ricalcare una figura è disegnare: qui non si tratta di
cinema, per carità!, bensì di modello di default con i suoi
predeterminati ingredienti. Probabilmente non vale nemmeno la pena
indignarsi verso un susseguirsi di stereotipi di tal fatta, da dove
ci troviamo ora (è chiaro: chi legge è quassù con me), aborriamo
una delle usuali contrapposizioni tra il bullo di turno che
spacconeggia sui più deboli (guarda caso proprio la coppia di
fratelli protagonista), che ruggine in questi meccanismi! Che
fastidioso e prolungato stridio nello sviluppo della situazione!
E dire che forse la
partenza non era stata nemmeno così male con un finto filmino
natalizio che tratteggiava un’atmosfera non proprio festosa
nonostante il periodo dell’anno, insomma si poteva pensare ad un
avvertimento, cosa che è perché ci fa vedere di quanto il Natale
fosse squallido in quella famiglia, peccato che la dritta oltre ad
arrivare subito si inabissa presto nelle sabbie mobili dell’ovvietà,
e non bastano piccoli accorgimenti tecnici come i ralenti
(sant’iddio, sono la cosa più insopportabile del mondo) o la
melliflua visuale soggettiva di quando entra in scena la tizia
orientale, a Psubrat servirebbe una rifondazione concettuale
molto più profonda per poter essere catalogato perlomeno come
vedibile. Ma di un avviso del genere a Maria Zbaska non credo possa
importare granché…
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