Del mio
ormai deteriorato rapporto con Ulrich Seidl avevo parlato in
occasione di Paradise: Hope (2013), poi visionando In the Basement (2014) appurai che la situazione non era affatto
migliorata, all’interno di quel film si poteva infatti rintracciare
una preoccupante riproposizione tematica che non faceva avanzare di
un millimetro il discorso dell’austriaco. Ora che sono appena
passati sullo schermo quattro tizi con la tromba, direi che non posso più
parlare di rapporto con Seidl ma di aspro conflitto: Safari (2016),
presentato a Venezia ’16 dove il caro Ulrich ha sempre avuto le
porte aperte, scatena nel sottoscritto un moto di profonda
repulsione, ciò non è affatto dovuto alle immagini che lo
sostanziano ma dal modus operandi del
regista che affoga nelle sue basse provocazioni, sarà anche un
cinema frontale, ma, al contempo, dietro tale frontalità non vi è
altro che non si possa comprendere in un battito di ciglia.
Onestamente non provo ammirazione nella neutralità assunta da Seidl
nei confronti di quei quattro imbecilli che zampettano nella savana
imbracciando fucili ad alta precisione, il fatto che il loro
comportamento debba smuovere la coscienza di chi guarda è una cosa
che mi fa sbadigliare poiché l’argomento trattato è troppo
sbilanciato, non ci si deve nemmeno interrogare su come mai degli
occidentali se ne vanno in Africa a sparare agli animali in quanto la
risposta è lampante: sono dei poveri coglioni esaltati. Allora
sarebbe più stuzzicante sintonizzarsi sulla materia Cinema ma anche
qui sono dolori.
Strutturalmente
il film è esile, si ripete, è impaludato in uno schema che
esaurisce la tematizzazione già al primo siparietto, Seidl è però
testardo e ci somministra una sequela di atti venatori pressoché
identici alternati agli sterili pensieri esposti in camera dai protagonisti. Inutile girarci intorno, la pochezza che compone Safari
risulta immedicabile, non funziona nei panni di scheggia all’arsenico
né riesce ad approfondire la questione post-colonialista
soffermandosi, giusto per darsi un tono, in maniera improducente sui
volti dei manovali locali assoldati dagli europei per fare il lavoro
sporco. Mi domando il perché di un approccio artistico del genere:
in una realtà che partorisce triliardi di immagini al secondo e la
cui velocità di propagazione è fulminea, sbattere in primo piano
l’agonia di una giraffa con relativo scotennamento è
un’esposizione estetica che urla, né più né meno, al pari di
tutte le altre ad essa equipollenti che viaggiano da uno smartphone
all’altro di secondo in secondo. Beninteso, non sto a dire che
nella nostra galleria abbiamo un campionario di animali trucidati, è
un discorso più ampio relativo ad una pornografia dell’immagine
che ha deprezzato qualunque carica eversiva delle medesime, non ci si
stupisce più, e quando accade non è di sicuro grazie ad
un’ostentazione, esibire l’uccisione o la macelleria non è fine,
non stimola, è un gesto pigro che mira all’impatto cutaneo.
In
una video-intervista che si trova qui viene chiesto a Seidl se per
caso abbia preso spunto dalle opere di Gualtiero Jacopetti per
Safari, l’autore
viennese risponde che sa vagamente chi era costui ma che comunque i mondo-movie non
hanno niente a che fare con la sua pellicola, ha ragione: i MM
erano roba figlia di un’altra epoca dove veniva accantonato
qualunque valore per mirare allo shock diretto, invece qui... invece
in Safari cosa
succede? Sarei uno scriteriato ad accostare due oggetti appartenenti
a galassie temporali differenti, attenzione però, a volte la
proprietà commutativa non funziona solo in matematica. Per chiudere
suggerirei a Seidl di dare un rapido sguardo al corto Jagdfieber
(2008) di Alessandro Comodin, giusto per capire che sulla caccia ci
sono altre modalità con cui esprimersi.
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