venerdì 1 giugno 2018

Safari

Del mio ormai deteriorato rapporto con Ulrich Seidl avevo parlato in occasione di Paradise: Hope (2013), poi visionando In the Basement (2014) appurai che la situazione non era affatto migliorata, all’interno di quel film si poteva infatti rintracciare una preoccupante riproposizione tematica che non faceva avanzare di un millimetro il discorso dell’austriaco. Ora che sono appena passati sullo schermo quattro tizi con la tromba, direi che non posso più parlare di rapporto con Seidl ma di aspro conflitto: Safari (2016), presentato a Venezia ’16 dove il caro Ulrich ha sempre avuto le porte aperte, scatena nel sottoscritto un moto di profonda repulsione, ciò non è affatto dovuto alle immagini che lo sostanziano ma dal modus operandi del regista che affoga nelle sue basse provocazioni, sarà anche un cinema frontale, ma, al contempo, dietro tale frontalità non vi è altro che non si possa comprendere in un battito di ciglia. Onestamente non provo ammirazione nella neutralità assunta da Seidl nei confronti di quei quattro imbecilli che zampettano nella savana imbracciando fucili ad alta precisione, il fatto che il loro comportamento debba smuovere la coscienza di chi guarda è una cosa che mi fa sbadigliare poiché l’argomento trattato è troppo sbilanciato, non ci si deve nemmeno interrogare su come mai degli occidentali se ne vanno in Africa a sparare agli animali in quanto la risposta è lampante: sono dei poveri coglioni esaltati. Allora sarebbe più stuzzicante sintonizzarsi sulla materia Cinema ma anche qui sono dolori.

Strutturalmente il film è esile, si ripete, è impaludato in uno schema che esaurisce la tematizzazione già al primo siparietto, Seidl è però testardo e ci somministra una sequela di atti venatori pressoché identici alternati agli sterili pensieri esposti in camera dai protagonisti. Inutile girarci intorno, la pochezza che compone Safari risulta immedicabile, non funziona nei panni di scheggia all’arsenico né riesce ad approfondire la questione post-colonialista soffermandosi, giusto per darsi un tono, in maniera improducente sui volti dei manovali locali assoldati dagli europei per fare il lavoro sporco. Mi domando il perché di un approccio artistico del genere: in una realtà che partorisce triliardi di immagini al secondo e la cui velocità di propagazione è fulminea, sbattere in primo piano l’agonia di una giraffa con relativo scotennamento è un’esposizione estetica che urla, né più né meno, al pari di tutte le altre ad essa equipollenti che viaggiano da uno smartphone all’altro di secondo in secondo. Beninteso, non sto a dire che nella nostra galleria abbiamo un campionario di animali trucidati, è un discorso più ampio relativo ad una pornografia dell’immagine che ha deprezzato qualunque carica eversiva delle medesime, non ci si stupisce più, e quando accade non è di sicuro grazie ad un’ostentazione, esibire l’uccisione o la macelleria non è fine, non stimola, è un gesto pigro che mira all’impatto cutaneo.

In una video-intervista che si trova qui viene chiesto a Seidl se per caso abbia preso spunto dalle opere di Gualtiero Jacopetti per Safari, l’autore viennese risponde che sa vagamente chi era costui ma che comunque i mondo-movie non hanno niente a che fare con la sua pellicola, ha ragione: i MM erano roba figlia di un’altra epoca dove veniva accantonato qualunque valore per mirare allo shock diretto, invece qui... invece in Safari cosa succede? Sarei uno scriteriato ad accostare due oggetti appartenenti a galassie temporali differenti, attenzione però, a volte la proprietà commutativa non funziona solo in matematica. Per chiudere suggerirei a Seidl di dare un rapido sguardo al corto Jagdfieber (2008) di Alessandro Comodin, giusto per capire che sulla caccia ci sono altre modalità con cui esprimersi.

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