La proiezione di Friss
levegő (2006) congiunta a quella di Adrienn Pál (2010)
delinea una vera e propria strada registica che la Kocsis non
disdegna di percorrere attraverso stili e temi strettamente
correlati. Nel vedere il film d’esordio, anch’esso presentato a
Cannes, osserviamo l’incubazione di una solitudine essenzialmente
casalinga laddove l’abitazione diventa una prigione soffocante
(Angéla sempre in bilico sulla finestra), un acquario che è il
diorama di un isolamento ben più grande, forse congenito (l’apertura
sul ballo di gruppo, un modo per conoscere qualcun altro…), nonché
luogo dove detonano i legami famigliari. Adrienn Pál, in
realtà, virerà poi su una traiettoria più complessa e, va detto,
più soddisfacente dal nostro punto di vista, resta il fatto che in
Fresh Air sono rintracciabili similari presupposti che, una
volta constatati, ci accompagnano nel centro pregnante: in mezzo c’è
una donna, bifronte, un essere madre-figlia in perenne lotta
interiore, Viola vuole un uomo senza riuscire a trovarlo, Angéla ne
trova uno senza volerlo, il risultato è un continuo protendere ad
una dimensione purtroppo per loro emarginante che la regista
ungherese, coadiuvata da quello che dovrebbe essere il suo marito
italiano, Andrea Roberti, gestisce con raffinatezza e ironico garbo.
Tenendo bene a mente che
un film così non potrà mai sconvolgere la sensibilità del
sottoscritto e presumo nemmeno la vostra, nello scorrere tra i
continui giri a vuoto beffardamente orchestrati, su tutti il
tentativo di fuga di Angéla, nato, fra l’altro, dall’unico
spiraglio di visione-sul-mondo fornito dalle VHS de La piovra
(Michele Placido è la star appesa in cameretta), che inscena un
fallimento quasi circolare, come se la gabbia-casa fosse la cella
dove è inevitabile il ritorno, Kocsis & Roberti arrivano ad una
chiusa che potrebbe essere letta come segue: la battaglia della vita
è meno dura venendosi incontro, sicché l’episodio
dell’aggressione ai danni della mamma funge da conciliazione, però,
e mi pare sia un però che pesa, non scoppia un roseo idillio tra le
due, anzi con la sostituzione della ragazza sul posto di lavoro
qualcosa di molto amaro si propaga nel palato. La scena è questa:
una teenager piena di sogni che vestita dell’armatura materna (una
vestaglia rossa, dove il rosso è il solo colore indossato dal
genitore) si cala nella latrina della società, non c’è aria
fresca, se non quella posticcia delle bombolette spray, e
l’interessante inquadratura finale, un lento carrello all’indietro
di fliegaufiana memoria (Dealer [2004], ma molto in miniatura
eh…), non trasmette di sicuro sensazioni positive, quel piccolo
cesso, infatti, appare alla fine come lo sgabuzzino di uno sterminato
universo nero.
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