Il terzo film di Reygadas si apre con un prologo sontuoso, un’alba che soverchia la notte e inizia ad illuminare una storia ambientata nello stato di Chihuahua, Messico settentrionale, dove in una comunità di mennoniti, frangia anabattista che rifiuta il progresso, un padre di famiglia di nome Johan si innamora di un’altra donna.
Se non si è letta nessuna informazione pre-visione, Stellet licht (2007) può sembrare tutto fuorché un film di matrice latina. A parte la tecnica di Carlos Reygadas che già abbiamo potuto conoscere (Japón!, 2002) e che si abbevera alla fonte dei grandi registi europei – qui si parla di omaggio al Dreyer di Ordet (1955) –, l’ambientazione (una campagna lussureggiante) e la recitazione (nella lingua originale chiamata Plautdietsch, costola del tedesco con influenze fiamminghe) sembrano trasportare in una dimensione vicina più al vecchio continente che all’America Centrale. Ma queste sono puntualizzazioni che si possono conoscere soltanto attraverso una ricerca ex post sul film poiché esso niente dice della realtà che va a raccontare e di conseguenza è forte il disorientamento iniziale.
Sulla magnificenza dell’incipit si è detto poco sopra, e ciò non sorprende più di tanto vista l’ormai rinomata potenza estetica di questo autore messicano. Anche il prosieguo dell’opera non disattende le aspettative, in poche parole: Reygadas si profila come uno degli sguardi più interessati al mezzo cinema di tutto il panorama internazionale e lo dimostra non solo con sequenze di rarissima bellezza (il bagno nel laghetto dei bambini o la veglia funebre) ma anche con singoli plans che esaltano l’occhio (i primi piani o i paesaggi), da ciò si desume che il suo linguaggio cinematografico si costituisce in una sintassi di pregevole qualità tanto che la confezione, come è accaduto per Battaglia nel cielo, supera il contenuto, ma a differenza della pellicola del 2005 non di troppo.
Se analizziamo la trama si scopre, con un po’ di sorpresa, la sua risibilità se rapportata ai 145 minuti di proiezione. Di fatto abbiamo un uomo di mezz’età che ha una relazione con la cameriera di un ristorante, il resto, compresa l’amante, è contorno: la numerosa prole diventa massa indistinta, il padre e l’amico di Johan sono solo accessori, la moglie, consapevole del tradimento, figurina passiva, e lo stesso protagonista appare in alcuni frangenti vittima di uno slittamento ruolistico in subordinazione alla maestosità della natura.
Certo è che ci sono moti interni da non sottovalutare, d’altronde Johan è, come molti, un uomo di fede, e, come tutti, un uomo in cerca di risposte che tenta di trovare nella propria religiosità.
Ed è qui il punto centrale che dà significazione al titolo. Il silenzio divino non solo lesina risposte, ma addirittura punisce togliendo la vita e trasformando il pingpong di piani durante il canto funereo in una crescita di sensi di colpa, uno per ogni figlio inquadrato.
Forse si alza troppo il tiro con l’incredibile finale in cui la luce viene occlusa (foto sotto) dalla mano della donna amata, una specie di decatechizzazione che assurge l’uomo a vero dio capace di ridonare quella vita attraverso il pentimento. Scena memorabile per l’immobile ripresa del viso statuario che d’improvviso riacquista volontà, ma allo stesso tempo coperta destabilizzante (e occultante) di un senso non facilmente rinvenibile forse perché non misurabile nemmeno da un geometra dell’immagine come Reygadas.
Ciò che conta, comunque, è che questo regista continui a fare un cinema così. Artistico e spiazzante.
Se non si è letta nessuna informazione pre-visione, Stellet licht (2007) può sembrare tutto fuorché un film di matrice latina. A parte la tecnica di Carlos Reygadas che già abbiamo potuto conoscere (Japón!, 2002) e che si abbevera alla fonte dei grandi registi europei – qui si parla di omaggio al Dreyer di Ordet (1955) –, l’ambientazione (una campagna lussureggiante) e la recitazione (nella lingua originale chiamata Plautdietsch, costola del tedesco con influenze fiamminghe) sembrano trasportare in una dimensione vicina più al vecchio continente che all’America Centrale. Ma queste sono puntualizzazioni che si possono conoscere soltanto attraverso una ricerca ex post sul film poiché esso niente dice della realtà che va a raccontare e di conseguenza è forte il disorientamento iniziale.
Sulla magnificenza dell’incipit si è detto poco sopra, e ciò non sorprende più di tanto vista l’ormai rinomata potenza estetica di questo autore messicano. Anche il prosieguo dell’opera non disattende le aspettative, in poche parole: Reygadas si profila come uno degli sguardi più interessati al mezzo cinema di tutto il panorama internazionale e lo dimostra non solo con sequenze di rarissima bellezza (il bagno nel laghetto dei bambini o la veglia funebre) ma anche con singoli plans che esaltano l’occhio (i primi piani o i paesaggi), da ciò si desume che il suo linguaggio cinematografico si costituisce in una sintassi di pregevole qualità tanto che la confezione, come è accaduto per Battaglia nel cielo, supera il contenuto, ma a differenza della pellicola del 2005 non di troppo.
Se analizziamo la trama si scopre, con un po’ di sorpresa, la sua risibilità se rapportata ai 145 minuti di proiezione. Di fatto abbiamo un uomo di mezz’età che ha una relazione con la cameriera di un ristorante, il resto, compresa l’amante, è contorno: la numerosa prole diventa massa indistinta, il padre e l’amico di Johan sono solo accessori, la moglie, consapevole del tradimento, figurina passiva, e lo stesso protagonista appare in alcuni frangenti vittima di uno slittamento ruolistico in subordinazione alla maestosità della natura.
Certo è che ci sono moti interni da non sottovalutare, d’altronde Johan è, come molti, un uomo di fede, e, come tutti, un uomo in cerca di risposte che tenta di trovare nella propria religiosità.
Ed è qui il punto centrale che dà significazione al titolo. Il silenzio divino non solo lesina risposte, ma addirittura punisce togliendo la vita e trasformando il pingpong di piani durante il canto funereo in una crescita di sensi di colpa, uno per ogni figlio inquadrato.
Forse si alza troppo il tiro con l’incredibile finale in cui la luce viene occlusa (foto sotto) dalla mano della donna amata, una specie di decatechizzazione che assurge l’uomo a vero dio capace di ridonare quella vita attraverso il pentimento. Scena memorabile per l’immobile ripresa del viso statuario che d’improvviso riacquista volontà, ma allo stesso tempo coperta destabilizzante (e occultante) di un senso non facilmente rinvenibile forse perché non misurabile nemmeno da un geometra dell’immagine come Reygadas.
Ciò che conta, comunque, è che questo regista continui a fare un cinema così. Artistico e spiazzante.
caro, io ho da farti una proposta intelligente (e non perchè sono io ma perchè lo è per davvero).
RispondiEliminaOgni volta che recensisci un film, perchè non posti il link del torrent? Io alcuni ho davvero molta difficoltà a trovarli,ed è straziante, perchè talvolta fai venire una voglia di vederli che ci rimango malissimo se non li recupero...
comunque.
tanti bacini.
gh.
Eh ma sai una cosa? Ho un po' di paurina a mettere il link di cose non legali che poi magari i cattivi fanno tanta bua al blog e io ci rimango malissimo :(((
RispondiEliminaComunque qui ce ne sono in quantità: http://torrentz.eu/cf42e7234ba31686ee8713948c7a11330c20599b
visto, è un film stranissimo, inattuale, non da multisala direi.
RispondiEliminatrama esilissima, immagini bellissime.
Vero. Estetismo sopra ogni cosa, e senso che lascia disorientati: c'è? Non c'è? Nel dubbio, ammiriamo.
RispondiEliminauh, devo recuperare questo film, interessante
RispondiEliminaUn film interessante, come tu dici di enorme pregio artistico. L'uso delle dinamiche della luce, dei bagliori del sole è stupefacente.
RispondiEliminaMa purtroppo finisce tutto qui. La storia è molto spoglia e gli attori non sembra che siano molto a loro agio. La maniacale ricerca estetica è come se avesse raffreddato il cuore di quest'opera: la storia, i personaggi, i legami.
Eppure di cuore era fatto, quel film di Dreyer che ha ispirato il miracolo di Reygadas.
Siamo lontani dalla luce viva e feroce di Japon, dalla forza intramontabile di quelle opere che sono vissute con il cuore.
J... hai visto Post Tenebras Lux? Io lo consiglio vivamente, sarà che ho avuto l'onore di godermelo in sala, ma mi ha davvero impressionato. Reygadas si è affermato definitivamente con la sua ultima fatica.
RispondiEliminaProverò a parlarne stasera.
Non l'ho visto, perchè non posso vederlo! Qui neanche l'ombra. Ma non sei l'unico che ne parla benissimo.
RispondiEliminaUna riconferma del talento di Japon?
Così mi fate morire di entusiasmo prima di vedero!
Più che una riconferma direi un'evoluzione. Rispetto a Japon Reygadas sperimenta di più. Finora è il miglior film del 2013 secondo me.
RispondiEliminaSi senz'altro..in realtà speravo di poter dire lo stesso per Camille Claudel (visto qualche settimana fa) ma nonostante la grande stima per Dumont, l'intensità della Binoche per me si è consumata in una fugace e solitaria proiezione pomeridiana. Mi sa che dopo Hors Satan, per Bruno, saranno stracazzi da cacare ;)
EliminaCioè? Non ti è piaciuto?
EliminaSi che mi è piaciuto..ma non mi sentirei di paragonarlo a Hors Satan..né di posizionarlo in un'ipotetica classifica sopra Post Tenebras Lux.
EliminaComunque sono sicuro che quando avrai modo di vederlo ci scriverai qualcosa quindi eventualmente ne riparleremo.
Chiaro :)
EliminaCondivido soprattutto la frase "la confezione supera il contenuto" anche se stavolta di poco. Le sequenze natutalistiche per così dire mi hanno rapito, ma non sono riuscito a empatizzare minimamente con i personaggi e di conseguenza col film. Indubbiamente una regia strepitosa, ma pur essendo un amante dei lunghi respiri mi ha lasciato un po' troppo indifferente in alcuni punti.
RispondiEliminaSaltando di palo in frasca sarei curioso di leggere una tua recensione di "Drive" di Refn.
Questo blog è deceduto da più di un anno, difficile che tu possa leggere qualcosa su Refn scritto da me :)
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