sabato 24 ottobre 2020

A Skin So Soft

Tre anni dopo Joy of Man’s Desiring (2014) Denis Côté ritorna al documentario con il quale ha sempre flirtato, questa volta per Ta peau si lisse (2017) il suo oggetto di studio è abbastanza in controtendenza rispetto a ciò che ci ha sempre fatto vedere, se infatti scorriamo la filmografia del canadese si nota una particolare passione verso figure anonime che vivono in località altrettanto trascurabili (con eccezione [pessima]: Boris Without Béatrice, 2016), qui i protagonisti della pellicola presentata a Locarno ’17 sono dei culturisti o ex-tali (ad esclusione di uno che fa il wrestler) e quindi sono persone che obbligatoriamente si espongono davanti ad un pubblico, che inevitabilmente per la loro attività sportiva devono mettersi al centro dell’attenzione, poi li si potrà anche considerare degli outsider rispetto alla società visto lo stile di vita che conducono e l’aspetto che si sono costruiti proprio in seguito al suddetto stile, però parificarli ai personaggi di Curling (2010) o comunque ritenerli una nicchia d’umanità che passa inosservata decisamente no. Côté è libero di riprendere quello che vuole, ci mancherebbe, tuttavia credo che di opere interessate al body buidling ce ne siano talmente tante (solo che da queste parti è passato il dittico Dennis [2007] e Teddy Bear [2012] di Mads Matthiesen) da non necessitare ulteriori esemplari, almeno non con il taglio fornito.

(... lo scrivo in questa parentesi volante perché non sono stato capace di metterlo altrove: volete sapere l’unico motivo valido per guardare Ta peau si lisse? Non c’entra il cinema ma la linguistica: a quelle latitudini, che dovrebbero corrispondere al Québec, si parla un francese imbastardito che è una vera curiosità da sentire)

Dico solo una cosa a proposito di A Skin So Soft: che è un film impersonale, e ritengo che per un autore non ci possa essere giudizio più doloroso, ma così è, mentre si vede l’esistenza di ’sti nerboruti giovanotti non si ha mai l’impressione che la mano dietro al progetto sia quella di un regista che ha, o vorrebbe avere, una poetica. Sono immagini qualunque nel senso che potrebbero arrivare da qualunque nome dello sterminato panorama cinematografico, e per di più sono immagini che ricalcano fedelmente l’idea preliminare che si ha di atleti del genere, tradotto: se mi accingo a vedere un’opera autoriale su dei body builder mi posso aspettare che di essi ne vengano fatte risaltare delle sfumature personali capaci di renderli meno scimmioni e più vicini a chi su una panca piana non ci ha mai appoggiato la schiena, e tac: uno si commuove vedendo un video al computer, l’altro si dimostra amorevole col figlioletto, un altro ancora trema in prospettiva dell’esibizione. Banalità. E la faccenda non è appagante nemmeno sul versante estetico perché il metodo di trasmissione è un ordinario montaggio alternante i vari palestrati con Côté che tenta di mimetizzarsi nella loro quotidianità attraverso pedinamenti e istantanee casalinghe (oltre ovviamente ad allenamenti e affini). Per nulla illuminanti poi i possibili ragionamenti su competizione, narcisismo, sacrificio, salute, alimentazione. Se infine vi accontentante dell’ultimo quarto d’ora che finalmente devia un poco dalla routine, fate pure, per quanto mi riguarda questo è un Côté davvero, davvero, non necessario.

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