
Non meno fantasioso e non
meno disposto a travasamenti dell’impossibile nel possibile di
A Espada e a Rosa (2010), il
secondo lungometraggio di João
Nicolau risulta, forse, più “ordinato” perché circoscrive
maggiormente il suo campo di trattazione che è quello sentimentale,
ma da qui ad affermare che John
From
(2015) sia routine amorosa su pellicola c’è un mare di mezzo, più
d’uno probabilmente, acque, oceani condensati in una pozza su un
poggiolo qualunque di Lisbona dove Rita, in procinto di diventare
donna, vi posa i piedi, e appunto Rita: Nicolau ci fa entrare nella
sua sfera adolescenziale con tutto il tatto e la delicatezza che il
cinema portoghese ha dimostrato negli ultimi anni e utilizzando pochi
ingredienti ne tratteggia la vivace personalità, il rapporto con i
genitori e quello con i coetanei (bello e vivo il sistema di
comunicazione con l’amica Sara). Prima che si metta in moto la
macchina immaginifica del regista, il ritratto della ragazzina,
seppur senza picchi, si mangia in un boccone i profili da teen-movie
che popolano le innumerevoli opere del settore, tuttavia, nel momento
in cui si accende l’interruttore, un’altra luce cade sulla
storia, Nicolau è sempre parsimonioso, attento a non eccedere, le
accelerazioni, mimetizzate nel cullante clima del film, quasi non si
percepiscono (un micro-esempio: verso la fine il padre abbraccia
Rita, in quell’istante la spalla dell’uomo è a favore di camera
e mostra un tatuaggio che sicuramente prima non c’era), eppure
dall’infatuazione verso il vicino-fotografo, un amore senza
malizia, lindo, puro come nelle fiabe (del resto l’afflato
favolistico è una costante per la cerchia di autori lusitani che
abbiamo imparato ad apprezzare), deriva per noi spettatori una
piacevole voglia nell’essere sorpresi dall’artificio-cinema,
anche (e per fortuna) con mezzi rustici, anche senza complicate
piroette narrative, il velo di magia si distende placido, fa fiorire,
ingemma, adorna la cotta di una quattordicenne o giù di lì
trasformandola in un teatro della mente e del cuore aperto e
permeabile.
Uscito
nello stesso anno della trilogia di Miguel Gomes (Inquieto
/ Desolato
/ Incantato),
John From,
che potrebbe tranquillamente essere un episodio della suddetta terna,
è un documento di progressiva fusione del surreale nel reale.
L’iniezione principale è data da una scia esotica che riguarda la
Melanesia (regione dell’Oceania), l’infiltrazione di questa
dimensione tribale nella Lisbona di Rita avviene attraverso una
rimodulazione di ricerche su Google, nozioni e letture di fatti
storici effettuate proprio dalla protagonista, non vi è alcuna
certezza che il mondo così come ad un certo punto si delinea sia
soltanto una proiezione di Rita (il finale sulla spiaggia potrebbe
suggerirlo), però è un’eventualità che va presa in
considerazione al pari dell’opposto. Sia quel che sia, è comunque
molto appagante assistere alla graduale rarefazione del tessuto
concreto, allo sfaldarsi dell’atmosfera urbana e alla susseguente
riconversione in cristallina materia trasognante. L’evento di non
ritorno è l’apparizione della nebbia durante la riunione di
condominio (e attenzione ai vari dettagli disseminati prima), da lì
in poi gli sversamenti da laggiù a quaggiù saranno tali da giungere
ad un’ultima tappa di indistinguibile aggregazione. Con franchezza
mi spingo a rimarcare che se esiste una strada per un cinema
autoriale fatto di sceneggiatura, attorialità e via dicendo, il
manipolo di registi portoghesi capitanati da Gomes ha compreso quale
sia e dove porta: in territori che sono l’esito di un lavoro
creativo applicato al quotidiano, all’attualità, un ottimo modo
per aiutarci a decifrare la complessità di ciò che ci circonda.
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