martedì 6 ottobre 2020

Joy of Man’s Desiring

Parlando di Bestiaire (2012) ero arrivato ad interpretare, non senza un pizzico di creatività, la meditazione faunistica di Denis Côté come uno specchio in grado di riflettere l’essere umano sotto altre spoglie, in quel film avevamo degli animali che si ritrovavano in un ambiente fittizio dove erano obbligati, ovviamente contro il loro volere, a vivere, due anni dopo il canadese estromette la componente zoologica per focalizzarsi sulle persone e, rifacendoci nuovamente ad un notevole sprint esegetico, ecco che i soggetti ripresi sono costretti, certo per necessità diverse dagli abitanti di un bioparco, a passare molte ore della giornata (“metà della mia vita è qui dentro”) in un luogo che non è definibile come ostile ma nemmeno come accogliente. Que ta joie demeure (2014) potrebbe essere quindi un titolo speculare al suo predecessore, c’è però subito da chiedersi: chi sono le persone di cui sopra? Perché Côté se ne occupa? Diciamo che per l’autore l’area di interesse gravita intorno al settore secondario, alla manovalanza, al proletariato che campa nella routine meccanica e stordente della fabbrica. È sicuramente un film sul lavoro questo, e la genericità dell’affermazione dondola tra il peculiare (perché il ramo è specifico) ed il globale (perché comunque le potenzialità di traslare in qualunque altro contesto lavorativo il fine soggiacente dell’opera sono ben evidenti), in siffatto movimento Côté insedia degli sprazzi di pensiero che ponderano la condizione esistenziale dell’uomo in relazione al mondo professionale, forse un nodo di Joy of Man’s Desiring è proprio collocato nell’esplorazione concettuale on site di un’istanza indispensabile per la società moderna direttamente dalle bocche dei protagonisti, e qui poi si apre una feritoia stilistica poiché più abbiamo a che fare con gli operai e le loro impressioni e più il documentario si “sporca”, viene intaccato e incrociato con la finzione.

Però la lettura di uno studio umanistico appaga fino ad un punto che confina con altro, si tratta di un angolo visivo che mette in secondo piano le possibili vedute sociali, in tal senso l’incipit risulta esemplare: il clangore degli stantuffi, l’incessante ronzio dei nastri trasportatori, l’imponenza delle presse tsukamotiane, tutto è ripreso da Côté con un taglio sì contemplativo ma anche sinfonico, l’obiettivo sembra quello di interessarsi alla presenza dei macchinari come se fossero i musicisti di una assordante colonna sonora quotidiana fatta di ripetizioni continue. Si delinea perciò uno spazio filmico che ha la faccia tosta di non prendere troppissimo sul serio le problematiche dei braccianti, del resto non è una storia di Ken Loach, perché Côté coerente con il suo credo artistico sa essere strambo anche quando pratica nella realtà più pura (o giù di lì), ne scaturisce che oltre lo strato tormentato raccolto sussiste in sintesi una ricerca quasi ascetica sull’ecosistema industriale, gli oggetti, relegati sul nostro sfondo percettivo, hanno invece una posizione preponderante poiché sempre in scena visivamente e acusticamente. Il brutto, che invece è bello, è che dal quadro così proposto si diffonde una monotonia intrinseca alla visione, Que ta joie demeure è un film noioso perché recapita allo spettatore il medesimo sentimento che va ad analizzare, desume dal trantran occupazionale il suono grigio e ossessivo dei giorni uguali gli uni agli altri. È un discorso capzioso? Per il sottoscritto no, dopo un’ora abbondante di fragori automatici l’apparizione del piccolo violinista portatore di musicalità (non a caso ammirato in silenzio dalle tute blu) ha un che di liberatorio.

Ad ogni nuova manifestazione cinematografica, ed in particolare quelle recenti, Denis Côté si sottrae continuamente ad una netta demarcazione autoriale, ciò sarebbe anche positivo se non fosse che di fatto Joy of Man’s Desiring sta in mezzo alle due peggiori pellicole recanti ad oggi le iniziali D.C., Vic + Flo Saw a Bear (2013) e Boris Without Béatrice (2016), sicché una domanda si solleva: non sarà mai che il regista nato in un piccolo paese chiamato Perth-Andover si trovi più a suo agio con produzioni maggiormente contenute (anche economicamente) che navigano al largo dalle secche della manifesta narrazione? Les lignes ennemies (2010) potrebbe essere una valida risposta al quesito, al pari di Que ta joie demeur.

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