Però la lettura di uno studio umanistico appaga fino ad un punto che confina con altro, si tratta di un angolo visivo che mette in secondo piano le possibili vedute sociali, in tal senso l’incipit risulta esemplare: il clangore degli stantuffi, l’incessante ronzio dei nastri trasportatori, l’imponenza delle presse tsukamotiane, tutto è ripreso da Côté con un taglio sì contemplativo ma anche sinfonico, l’obiettivo sembra quello di interessarsi alla presenza dei macchinari come se fossero i musicisti di una assordante colonna sonora quotidiana fatta di ripetizioni continue. Si delinea perciò uno spazio filmico che ha la faccia tosta di non prendere troppissimo sul serio le problematiche dei braccianti, del resto non è una storia di Ken Loach, perché Côté coerente con il suo credo artistico sa essere strambo anche quando pratica nella realtà più pura (o giù di lì), ne scaturisce che oltre lo strato tormentato raccolto sussiste in sintesi una ricerca quasi ascetica sull’ecosistema industriale, gli oggetti, relegati sul nostro sfondo percettivo, hanno invece una posizione preponderante poiché sempre in scena visivamente e acusticamente. Il brutto, che invece è bello, è che dal quadro così proposto si diffonde una monotonia intrinseca alla visione, Que ta joie demeure è un film noioso perché recapita allo spettatore il medesimo sentimento che va ad analizzare, desume dal trantran occupazionale il suono grigio e ossessivo dei giorni uguali gli uni agli altri. È un discorso capzioso? Per il sottoscritto no, dopo un’ora abbondante di fragori automatici l’apparizione del piccolo violinista portatore di musicalità (non a caso ammirato in silenzio dalle tute blu) ha un che di liberatorio.
Ad ogni nuova manifestazione cinematografica, ed in particolare quelle recenti, Denis Côté si sottrae continuamente ad una netta demarcazione autoriale, ciò sarebbe anche positivo se non fosse che di fatto Joy of Man’s Desiring sta in mezzo alle due peggiori pellicole recanti ad oggi le iniziali D.C., Vic + Flo Saw a Bear (2013) e Boris Without Béatrice (2016), sicché una domanda si solleva: non sarà mai che il regista nato in un piccolo paese chiamato Perth-Andover si trovi più a suo agio con produzioni maggiormente contenute (anche economicamente) che navigano al largo dalle secche della manifesta narrazione? Les lignes ennemies (2010) potrebbe essere una valida risposta al quesito, al pari di Que ta joie demeur.
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