mercoledì 6 gennaio 2021

The Family

Che strano, un film dalla stazza mastodontica (carissim*, qua si viaggia sulle quattro ore e quaranta, astenersi impazienti) che racconta di cose minime, praticamente microscopiche, eppure, a pensarci bene, non è poi così strano perché la lunghezza e la relativa vastità di un’esistenza interconnessa ad altre esistenze che impastano un nucleo consanguineo è fatta di eventi piccolissimi e inessenziali, un ordito di gesti quotidiani, ripetitivi e uguali a se stessi che danno fibra alla rete della vita. Jia (2015), opera prima e ad oggi ultima di Liu Shumin, è un lavoro che si concentra sulle dinamiche di una famiglia cinese le cui redini sono tenute da una coppia di settantenni che si mettono in viaggio per andare a trovare i due figli lontani (una, la maggiore e già divorziata, vive con loro). Stiamo parlando con ogni probabilità della più imponente radiografia famigliare proveniente dalla Cina che sia mai stata svolta in ambito cinemarografico, magari ci sono pellicole che in passato si sono prefissate dei target tematici simili, però The Family grazie alla sua estensione e alla triplice veduta domestica va molto in profondità al punto che, se consideriamo gli ambienti casalinghi cellule di un organismo più grande, ecco che si ha uno studio sociologico di un Paese lanciato verso il futuro ma che ha ancora uno strato tradizionale ben radicato nel proprio tessuto collettivo. Siccome Jia è passato da Venezia ’15 alcuni tra i principali siti italiani di critica (Spietati, Quinlan, CineLapsus) lo hanno recensito e ciò che all’incirca è sottolineato da tutti è l’evidenza di una messa in scena che affronta il mutamento capitalista di una nazione, verissimo e credo incontrovertibile, tuttavia, al di là di congetture economiche, quello che io ho visto e che ci affratella più di qualunque sistema reddituale è un’umanità limpida e amorevole, penso alle preoccupazioni genitoriali, al carattere di quest’ultimi (lei così dedita, lui burbero e chiuso), al desiderio di avere una proprietà immobiliare, all’oculatezza nell’usare il denaro, elementi che ritengo siano traslabili in qualsiasi famiglia occidentale e che certificano l’afflato universale del film.

Una centralità spicca, ed è squisitamente materna. Se c’è una persona che è il perno fondamentale della famiglia, non può che essere la mamma. L’apertura di Jia avviene in cucina, sarà un leitmotiv: in entrambe le visite che i coniugi effettuano la donna sale subito sul ponte di comando delle faccende di casa nonostante la presenza della figlia da una parte o della nuora dall’altra, ma quella che si potrebbe leggere a parole come invadenza, nella pratica assume i contorni di una forma di rispetto o forse di insegnamento verso i più giovani. La forza di questa gentile donnina è tale da sostituirsi, sempre con impeccabile discrezione, al ruolo del marito, spesso imbambolato di fronte alla televisione. È infatti lei che si auto-incarica di fare un certo discorsetto al figlio minore ed è sempre lei che fa da paciere in seguito ad un diverbio scoppiato tra il figlio in questione ed il padre. L’importanza che essa ha nella storia è certificata, tra le altre cose, da una sua digressione che ripercorre con dolcezza il passato relazionale del duo e dove viene introdotta la prima finestra di pura finzione (a tal proposito approfondisco nel paragrafo sotto). L’idea pre-visione di una struttura esclusivamente patriarcale della famiglia cinese con Jia si ammorbidisce non poco, all’autorità paterna, comunque percepibile, risponde una tenacia femminea che funge da deus ex machina, un moto affettivo che muove, governa, pianifica e protegge perseguendo un concetto di bene. La tenerezza è il sentimento che si diffonde dagli anziani sposi perché ne è intrisa la loro senilità, il reciproco prendersi cura (l’inversione dietro ai fornelli in un momento di difficoltà), il farsi in quattro per garantire un avvenire sereno a chi hanno vicino.

L’alveo nel quale scorre The Family è la docufiction, ad un’analisi categoriale l’impressione è che si sia più vicini alla riva documentaristica che a quella finzionale. Soprattutto nelle riprese interne il regista si adegua alle tempistiche dei suoi interpreti soffermandosi a lungo su situazioni ordinarie, il tasso di penetrazione è notevole e conferisce una cifra di verità che si accoglie con piacere, di contro in alcune scene esterne si nota una costruzione più elaborata con carrelli ascensionali e inquadrature prospettiche studiate a puntino. L’artificio si affaccia inoltre in due flashback (uno l’ho citato poco sopra) dove Shumin allestisce altrettanti quadretti semi-onirici silenziati in netto contrasto col flusso generale. Vista l’enorme espansione della pellicola le etichette di riferimento coabitano in maniera accettabile tanto che, per rimanere nelle medesime aree geografiche, si potrebbe intendere il titolo sotto esame un riflesso rovesciato di An Elephant Sitting Still (2018 – dove al contrario si aveva meno realismo e più fiction). L’unico aspetto su cui sento la necessità di esprimere un dubbio è la scelta di chiudere l’epopea con un colpo ad effetto di matrice narrativa (a posteriori, del fattaccio ci vengono dati dei segnali d’allarme con delle automobili che quasi investono i vecchietti). È un qualcosa che riconosco abbia un senso nel contesto del racconto, ma che in un qualche modo inquina la concretezza che fino a quell’istante abbiamo fronteggiato.

Per concludere, un esemplare cinematografico che al di là della bypassabile sbavatura appena menzionata si presenta come irripetibile, uno sguardo nella complessità del particolare che richiama a sé grandezze spropositate, un multi-ritratto di esseri umani che potrebbe potenzialmente essere infinito, un’Odissea di umiltà, speranza e amore.

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