martedì 3 gennaio 2023

The Chechen Family

Uno dei pregi de La familia chechena (2015) diretto da Martín Solá è quello di farsi luogo di illustrazione senza esserlo del tutto, perché una visione, una autorialità, si marchiano impresse su questa finestra che dà su un altro mondo, austero come è il documentario in sé, ma con punte acutissime di pregevole intensità. Solá fa un lavoro eccellente poiché riesce a darci un ritratto perlomeno comprensibile della realtà cecena senza mai intervenire, registrando, partecipando, ascoltando frammenti di esistenze che ci sembrano lontantissime. Così, di un popolo in conflitto continuo, ci arriva la testimonianza di una donna anziana che stesa a letto racconta di una deportazione in Siberia del passato, così, anche, i periodi bui della guerra si srotolano a parole sull’epidermide umana, sui labirinti concentrici dei polpastrelli. Storie che passano, anche nei meravigliosi primi piani delle bambine dagli occhi di giada che giocano a nascondino, e storie che non sentiamo, quelle femminili, che però vediamo, al di là di un vetro. Sebbene nel ridotto spazio di un’ora, il film di Solá (che dovrebbe far parte di un dittico insieme a Hamdan, 2015) dimostra di essere un oggetto aperto, accessibile e capace di suggestionare grazie a soluzioni semplici ma efficaci, si veda il tour notturno in automobile di Groznyj, un modo apprezzabile per accomiatarsi, per dire un silenzioso addio.

È però inutile girarci in giro, il cuore di The Chechen Family pulsa nelle riprese effettuate durante il dhikr, una danza collettiva islamica dove i membri (le donne e gli uomini non possono stare assieme a quanto si vede), ballando sul posto e seguendo un ritmo forsennato, ripetono una litania che nel suo ossessivo ripetersi diventa ipnotica. Il cinema ha questa capacità immersiva di trasformare una normale proiezione in un’esperienza acquatica, da vivere in apnea, e anche qui accade ciò: non è che Solá riprende noncurante e dall’esterno delle persone che danzano, all’opposto si incunea nel compulsivo assembramento, si appiccica letteralmente ai volti sformati dalla fatica, alle camicie fradicie di sudore, capta respiri ad un passo dallo spasimo. Ci fa vedere, anzi ci fa sentire (e sentire è sempre qualcosa che va oltre il vedere), la forma estatica della preghiera, lo stato di trance a cui, credo a prescindere dalla religione di appartenenza, si giunge per mezzo di un iter definito, ed il risultato è il fiorire di un’energia travolgente tanto da travalicare, nel caso in esame, la barriera dello schermo, sicché non potremo dire di essere stati lì in Cecenia, nel bel mezzo di un tambureggiante rituale musulmano, ma quasi, perciò: grazie infinite Martín Solá, è stato assolutamente esaltante.

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