
Uno dei
pregi de La familia chechena (2015) diretto da Martín Solá è
quello di farsi luogo di illustrazione senza esserlo del tutto,
perché una visione, una autorialità, si marchiano impresse su
questa finestra che dà su un altro mondo, austero come è il
documentario in sé, ma con punte acutissime di pregevole intensità.
Solá fa un lavoro eccellente poiché riesce a darci un ritratto
perlomeno comprensibile della realtà cecena senza mai intervenire,
registrando, partecipando, ascoltando frammenti di esistenze che ci
sembrano lontantissime. Così, di un popolo in conflitto continuo, ci
arriva la testimonianza di una donna anziana che stesa a letto
racconta di una deportazione in Siberia del passato, così, anche, i
periodi bui della guerra si srotolano a parole sull’epidermide
umana, sui labirinti concentrici dei polpastrelli. Storie che
passano, anche nei meravigliosi primi piani delle bambine dagli occhi
di giada che giocano a nascondino, e storie che non sentiamo, quelle
femminili, che però vediamo, al di là di un vetro. Sebbene nel
ridotto spazio di un’ora, il film di Solá (che dovrebbe far parte
di un dittico insieme a Hamdan,
2015) dimostra di essere un oggetto aperto, accessibile e capace di
suggestionare grazie a soluzioni semplici ma efficaci, si veda il
tour notturno in automobile di Groznyj, un modo apprezzabile per
accomiatarsi, per dire un silenzioso addio.
È
però inutile girarci in giro, il cuore di The Chechen Family pulsa nelle riprese
effettuate durante il dhikr, una danza collettiva islamica dove i
membri (le donne e gli uomini non possono stare assieme a quanto si
vede), ballando sul posto e seguendo un ritmo forsennato, ripetono
una litania che nel suo ossessivo ripetersi diventa ipnotica. Il
cinema ha questa capacità immersiva di trasformare una normale
proiezione in un’esperienza acquatica, da vivere in apnea, e anche
qui accade ciò: non è che Solá riprende noncurante e dall’esterno
delle persone che danzano, all’opposto si incunea nel compulsivo
assembramento, si appiccica letteralmente ai volti sformati dalla
fatica, alle camicie fradicie di sudore, capta respiri ad un passo
dallo spasimo. Ci fa vedere, anzi ci fa sentire (e sentire
è sempre qualcosa che va oltre il vedere),
la forma estatica della preghiera, lo stato di trance a cui, credo a
prescindere dalla religione di appartenenza, si giunge per mezzo di
un iter definito, ed il risultato è il fiorire di un’energia
travolgente tanto da travalicare, nel caso in esame, la barriera
dello schermo, sicché non potremo dire di essere stati lì in
Cecenia, nel bel mezzo di un tambureggiante rituale musulmano, ma
quasi, perciò: grazie infinite Martín Solá, è stato assolutamente
esaltante.
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