Mettendo per la prima volta in vita mia gli occhi su un’opera cinematografica girata da un autore palestinese pensavo in maniera un po’ altezzosa che fosse solo politica e poco altro, in realtà pensavo male, e parecchio: Port of Memory (2010), nel suo essere tanto, sicuramente non è un film banale, che è già una buona cosa, il regista Kamal Aljafari, molto apprezzato a quanto si legge in giro e quindi indubitabilmente da approfondire, utilizza uno spunto narrativo che depista (la faccenda della casa non riconosciuta ai legittimi proprietari [1]), infatti da una premessa così ci si poteva aspettare di rapportarsi con una drammaturgia simile a quella di Asghar Farhadi, tanto per rimanere nel Vicino Oriente e dintorni. Niente di più sbagliato: l’episodio à la Kafka (l’avvocato sempre off-screen) è appunto tale: un episodio, l’anellino di una catena che Aljafari sgrana come se fosse un rosario, è la proiezione del procedere (circolare?) di una città, Jaffa, in perenne dopoguerra, e di chi la abita. Nel vedere queste particelle di esistenza l’apparente racconto iniziale si sgretola come i muri dei palazzi che il regista riprende con perizia, non c’è una storia, ce ne sono tante in cui accediamo di sfuggita, sono storie già iniziate, sono giusto brandelli, fiammiferi che si consumano nello scintillio di uno sguardo. L’operato di Aljafari è funzionale a Port of Memory per rompere le ganasce dell’impostazione (in una parentesi staccata dal resto un regista fa ripetere numerose volte una battuta all’attore, è un atto finzionalizzante che collide con la visione realista) e pizzicare quelle corde lì, quelle giuste, quelle del Cinema.
E non è tutto qua, no perché oltre la concertazione di micro-esistenze esposte con un metodo che rimanda ad una autorialità europea, asciutta e rigorosa, Aljafari ibrida il flusso filmico in direzione trascendente, e lo fa avvalendosi di un tocco invisibile, una trasfusione di ulteriori istanze dentro la concretezza di Jaffa. Sono tre le scene che fanno tremare i confini: la prima è una panoramica sul deserto che accoglie le parole di un film su Gesù visto un fotogramma prima nel salotto della famiglia, la seconda è l’innesto di un “videoclip” che arriva a sovrapporsi con la passeggiata di Salim e la terza è l’irruzione nel montaggio di una pellicola d’azione con Chuck Norris ambientata proprio nelle strade della città. Perché vi sono delle detonazioni del genere? Io non lo so. Ma se guardo il film dalla prospettiva più abbordabile, ovvero dal suo nome, ecco che mi sembra di aver assistito al fiorire di una memoria. Con l’introduzione dei segmenti che appartengono a differenti lessici audiovisivi del passato, anche il presente assume una forma diversa, meno ancorato alla terra, tanto è che Salim, nella stupenda camminata conclusiva per una Jaffa desolata, a volte pare quasi diventare trasparente.
Per me, un Signor Film.
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[1] Forse, sottolineo forse, è solo qui che la dimensione politica emerge, e lo fa attraverso la metafora: una famiglia palestinese afferma di aver comprato l’abitazione dove vive ben quarant’anni prima, mentre un organo statale (… israeliano?) dice il contrario e li considera degli squatters.
Sarebbe possibile sapere dove lo hai recuperato? su KG sembrano scarseggiare i seeders :(
RispondiEliminaRisolto! Grazie per la scoperta!
EliminaMerita merita ;)
RispondiEliminadue corti di Kamal Aljafari:
RispondiEliminahttps://vimeo.com/27797782
https://vimeo.com/705773804
cerco the port of memory...
trovato qui:
RispondiEliminahttps://sonatapremieres.blogspot.com/2022/02/porto-da-memoria.html
Grazie!
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