Perché il punto saliente di Kuro (2017), un punto tetro, sordido, ignoto, sta tutto nell’esplicita divergenza tra il flusso del racconto e quello delle immagini. Per chi frequenta una certa tipologia di cinema questa dissonanza non rappresenta una novità, la branca che si potrebbe definire epistolare della settima arte, da Marker ed epigoni a venire, si avvale di strumenti pressoché identici per rivelarsi (il concetto è: dico una cosa ma ne mostro un’altra), ciò, comunque, non toglie il fatto che il lavoro del duo giapponese alla regia possegga delle qualità che meritano di essere viste e analizzate. Joji Koyama, artista poliedrico che vanta nel curriculum anche un videoclip per Calvin Harris, e Tujiko Noriko, musicista nonché volto femminile di Kuro, esordiscono nel lungometraggio con chirurgica misura, non tanto della storia in sé che non può né vuole essere misurata, quanto nell’idea che sta alla base e che è portata avanti, dall’inizio alla fine, con ammirabile coerenza espositiva. È una situazione opaca che attrae proprio perché non è mai posizionata sotto una luce chiarificatrice, vediamo una donna, Romi, e vediamo Milou, un uomo occidentale in stato semi-catatonico, eppure udiamo dell’altro: attraverso una voce over che parla di sé in terza persona veniamo edotti di una faccenda che ha luogo in uno spazio ulteriore, che è sì il Giappone ma che si sfibra in una dimensione onirica, una sorta di triangolo amoroso che a mano mano si fa sempre meno reale, galleggia, oscilla, affonda e risorge in uno scorrere di strane memorie o di strane fantasie senza che vi sia la possibilità di confutare alcuna istanza d’appartenenza, il che, come sarà facile immaginare, dà origine ad un trambusto interiore in chi assiste, il che, parlando a titolo personale, è anche sinonimo di fascinazione, elemento-substrato che Kuro elargisce con grande carattere.
Si vede, e non in senso figurato, che Koyama è impegnato nelle arti visive perché ogni fotogramma di questa perturbante poesia in continuo movimento ha una carica estetica da ricordare, e c’è anche una non così flebile ricorsività nelle immagini che aiuta a stabilizzarsi sulle frequenze del film, in tale ottica abbiamo una decisa insistenza sui fiori e sulle piante, i vegetali sembrano avere un discreto peso nell’economia dell’opera, un ragionamento, forse un po’ banale, suggerirebbe un parallelo con la paralisi di Milou, una supposizione che, meno male, non può avere riscontro, ad ogni modo un aggancio maggiormente centrato si trova tra lo stesso Milou ed il signor Kuro, è come se nella narrazione di Romi il secondo sia una traslazione del primo, il comun denominatore si situa nell’assistenza che la protagonista fornisce ad entrambi, certo è che i confini non sono affatto netti perché nella parte raccontata, quella per cui ci resta solo l’immaginazione, i tre coesistono in un medesimo ambiente, però, vista la natura antiletterale di Kuro, non sto qui a dire che Milou e Kuro siano uno, né che non siano nessuno, in qualche modo (magari esclusivamente nella mente di Romi) sono e il legame che attorciglia le tre anime sullo schermo è impossibile da sbrogliare pertanto il consiglio è di farvi impigliare nella tessitura elaborata dai registi.
Lo stream of consciousness della protagonista che si prende anche delle gradite digressioni (Romy Schneider), è supportata da un livello di scrittura che è praticamente alta letteratura (almeno nella traduzione dei sottototili inglesi), ascoltare per credere la descrizione di un sogno-diluvio accompagnato da delle riprese satellitari.
Che le confessioni di Romi appartengano al passato, al futuro o a qualunque altro piano temporale o che siano un metodo di evasione per sfuggire alla durezza del quotidiano (e quindi da un compagno in condizioni di salute molto precarie), il precipitato che cola giù da Kuro è uno sgocciolio denso e nero, è Mistero, è Kafka, è Ligotti, è Moresco, è il portarsi in oscure zone di confine ricorrendo ad un dispositivo cinematografico che disloca, non solo le componenti interne che lo costituiscono, ma anche, inevitabilmente, la percezione dello spettatore impegnato a disambiguare qualcosa che, alla fine, non vale la pena sforzarsi di interpretare con raziocinio.
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