Daniel (il figlio che ha
vissuto col padre) incontra dopo parecchio tempo la sorella Tilda,
che invece ha vissuto con la madre, a causa della morte di
quest’ultima. Tra i due nasce un’amicizia che insospettisce di
brutto il padre.
È il tintinnio di
un carillon a fare da bretella fra i rimpalli emotivi di questa
riunione famigliare, cellula molto vicina all’implosione scritta e
diretta dal regista finlandese Aleksi Salmenperä e finanziata
dall’istituzione Kaurismäki,
che punta l’indice sul ruolo del papà, uomo dalla vita
encomiabile e dal lavoro altrettanto ammirevole (è un
giudice), che però alle prese con una ricostruzione
inaspettata del nido famigliare (eccetto la moglie, rimpiazzata da
una nuova compagna) non riesce ad essere più super
partes, si smarrisce letteralmente in un vicolo cieco e paranoico
che non fa altro che mettere in luce la sua inadeguatezza come
genitore; ciò è esternato abbastanza bene dal regista
il quale suggerisce, forse, che Mikael anche nelle vesti di figlio
non si sente affatto comodo visto che il suo di padre è
una specie di automa anaffettivo. Purtroppo non si può dire
che le mere azioni che svolge per tentare di sbrogliare i propri
dubbi siano convincenti quanto la crisi del suo status perché nel vederlo
sparare in aria un colpo col fucile per un banale fraintendimento o
piazzare maniacalmente una videocamera nella stanza dei ragazzi, il
rischio è quello di provocare una forma di comicità
involontaria che di certo non fa bene alla pellicola, per il
sottoscritto l’errore commesso da Salmenperä è quello
di aver dato un tono così austero, drammaturgicamente rigido,
che le note dalle potenzialità ironiche spiccano per contrasto
con il mood in cui sono intrecciate, ma è ovviamente un
contrasto dall’effetto negativo poiché ragionando
all’opposto non è che sul piano del dramma vi siano cose
veramente memorabili, un limbo sonnolento appare la dimensione più
adatta in cui inquadrare Paha perhe (2010).
Anche nel rapporto
pseudo-incestuoso fra Dani e Tilda il torpore nordico prende il
sopravvento: l’intesa confidenziale è patina banalizzante,
la malizia è d’accatto, si registra a livello contabile ma
latita il possibile feedback dello spettatore, quelle che
vorrebbero essere delle impennate, dei graffi che rimangano, sono
moine sedute dove pesa sulle loro spalle un ordito tramico dalla
lettura profetizzabile (davvero si può credere anche solo per
un attimo che i due riescano a coronare il piano studiato?), che si
inaridisce nelle magre asperità padre-figlio/a fatte confluire
in maniera per nulla convincente in un finale ammosciato dalla svolta
simil-tragica che “grazie” al finto rapimento sortisce l’effetto
contrario, è ancora una questione di credibilità:
difficile contemplare in un paesaggio filmico (ma anche personale se
guardiamo il padre) così piatto un’accelerazione pressoché
estranea, senza fondamenta, che fa traballare non poco (c’era
davvero bisogno dell’episodio delle dita mozzate?) e suggerisce un
pensiero cattivello: di Kaurismäki
oltre ai soldi c’era bisogno del suo cinema capace di unire
territori divergenti con la semplicità propria dei Grandi,
posizione a cui Salmenperä, stando a Paha perhe, non è
evidentemente ancora giunto.
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