L’unico limite di
Lisandro Alonso era la linea dell’orizzonte.
Se si esclude il versante
avanguardistico (ammesso che questa catalogazione abbia un senso),
non mi sovviene nessun altro regista nell’attuale panorama mondiale
che svolga all’interno dei suoi film una ricerca così
fondante dello spazio nel cinema e di come il cinema, soprattutto
nell’ottica di Jauja (2014), possa non avere più uno
spazio, né geografico, né mentale, ma ci arriveremo.
Intanto è interessante notare di come la cornice, e quindi lo
spazio extrafilmico, il nostro buco della serratura, ha il formato
4:3, una scelta inusuale (di recente altri due contemporanei ce l’hanno
proposto: Sokurov [Faust, 2011] e Reygadas [Post Tenebras Lux, 2012]) perché in teoria limiterebbe lo sguardo di
Alonso che vive nell’ampiezza, nel campo totale. Ma è giusto
così: la destabilizzazione è il processo a cui dobbiamo
felicemente sottostare, Alonso gestisce il nostro spazio, la
finestra a cui ci affacciamo per osservare una Patagonia immobile,
dipinta, un palcoscenico naturale. E qui ritroviamo l’Alonso dei
film precedenti e la sua straordinaria sintassi che ci pone
continuamente in sfida col nostro comune sentire; negli occhi c’è
ancora la sparizione del protagonista di Liverpool (2008)
verso l’orizzonte innevato (come detto, l’unico punto oltre il
quale Alonso “non ci può più far vedere”… fino a
Jauja), situazione che in parte si ripete anche qui, e più
in generale è nuovamente reperibile l’atmosfera di estesa
fissità (spaziale e temporale) che ingloba l’opera, ci sono
però delle varianti inaspettate perché ad esempio alla
proterva lentezza controbattono improvvise apparizioni di cadaveri
insanguinati (certo, accadeva in modo similare anche nei film
pre-Liverpool, ricordo un episodio affine in Los muertos
[2004], ma in Jauja la professionalità acquisita di
Alonso sortisce un effetto superiore), così come alla sordità
eterna del deserto risponde un lievitante ingresso musicale sotto le
stelle, senza scordare la replica all’orografia del paesaggio,
dall’apertura marina alle materiche pietre laviche, col clamoroso
strappo verso l’oltre tangibile.
Che questo sia un film
senza coordinate lo si può intendere da una piccola questione
come la lingua parlata da Mortensen (danese in America Latina? Suona
strano), e dal solito marchio stilistico dell’autore
argentino che col suo approccio radicale ha sempre sganciato i suoi
uomini dal mero ritrattino. Ma come accennato poc’anzi delle
sfumature mutano il colore e, se si scende in profondità, si
scova una materia nuova nella lezione di Alonso, una leva che
permette di scardinare il lucchetto che incatena gli eventi. Se
almeno inizialmente pensiamo di trovarci al cospetto di una
rappresentazione storica sui generis (a tal proposito si
potrebbe pensare che le visioni filmiche del suo amico Albert Serra
[1] lo abbiano un po’ influenzato) con tanto di siparietti
comico-sentimentali sull’asse padre-figlia-amante, una volta avvenuto
l’allontanamento solitario di Mortensen il film si fa ramingo e
dall’apparizione del cane in poi squaderna la non-collocabilità
del luogo, non-Patagonia, poiché in prima battuta luogo
celebrale e ce lo testimonia l’incontro con la vecchia donna che
parla danese dentro la caverna-testa. Inaspettatamente c’è
molto simbolo in questa porzione della pellicola, eppure non è
nemmeno l’ultimo gradino, perché quello che succede
nell’ultimo quarto d’ora alza di una tacca tutto il discorso e ci
fa sprofondare nell’interrogativo. Ed è così che in
seconda battuta non c’è più lo spazio della geografia
e menchemeno quello della mente, anzi qualunque interpretazione
psicologica sfuma dato che il padre si scoprirà essere
soltanto la rotella di un altro ingranaggio. Potrebbe essere sogno,
tuttavia la carta dell’onirismo non basta, è di più,
è un regno indefinibile in cui non ci può essere alcuna
guida, le cose attraversano il tempo (il bambolotto ed il cane) e lo
spazio si sovrappone (le parole dell’uomo nel giardino che dice
alla ragazza di essere stata via per un po’).
Jauja, il lavoro
più compiuto di Alonso, si rivela quindi opera apertissima, un
vero e proprio forum che, come nella tradizione che più
preferisco, fa proliferare i quesiti lasciando a zero le risposte. E
poi, dal punto di vista strettamente tecnico, non si può non
riportare l’interessante variazione narrativa (è comunque il
film di Alonso con la traccia di racconto più marcata, almeno
nella prima parte, dove, tra l’altro, coesiste una sottile ironia)
e la luminosa fenditura che dà su mondi ulteriori, ‘sta
volta ben oltre la linea dell’orizzonte. Tutti indizi che
confermano uno status autoriale semplicemente superiore.
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[1] La stima è sottoscritta da
un corto di Alonso datato 2011 dal titolo inequivocabile: Sin
título (Carta para Serra).
e torno casualmente da queste parti dopo the lobster e tu -scopro- sei tornato come un'aragosta-aussi.felice io.tarantola
RispondiEliminaAl momento è solo così: http://pensieriframmentati.blogspot.com/2015/09/come-gagarin.html
RispondiEliminaCiao!