giovedì 12 novembre 2015

Jauja

L’unico limite di Lisandro Alonso era la linea dell’orizzonte.
Se si esclude il versante avanguardistico (ammesso che questa catalogazione abbia un senso), non mi sovviene nessun altro regista nell’attuale panorama mondiale che svolga all’interno dei suoi film una ricerca così fondante dello spazio nel cinema e di come il cinema, soprattutto nell’ottica di Jauja (2014), possa non avere più uno spazio, né geografico, né mentale, ma ci arriveremo. Intanto è interessante notare di come la cornice, e quindi lo spazio extrafilmico, il nostro buco della serratura, ha il formato 4:3, una scelta inusuale (di recente altri due contemporanei ce l’hanno proposto: Sokurov [Faust, 2011] e Reygadas [Post Tenebras Lux, 2012]) perché in teoria limiterebbe lo sguardo di Alonso che vive nell’ampiezza, nel campo totale. Ma è giusto così: la destabilizzazione è il processo a cui dobbiamo felicemente sottostare, Alonso gestisce il nostro spazio, la finestra a cui ci affacciamo per osservare una Patagonia immobile, dipinta, un palcoscenico naturale. E qui ritroviamo l’Alonso dei film precedenti e la sua straordinaria sintassi che ci pone continuamente in sfida col nostro comune sentire; negli occhi c’è ancora la sparizione del protagonista di Liverpool (2008) verso l’orizzonte innevato (come detto, l’unico punto oltre il quale Alonso “non ci può più far vedere”… fino a Jauja), situazione che in parte si ripete anche qui, e più in generale è nuovamente reperibile l’atmosfera di estesa fissità (spaziale e temporale) che ingloba l’opera, ci sono però delle varianti inaspettate perché ad esempio alla proterva lentezza controbattono improvvise apparizioni di cadaveri insanguinati (certo, accadeva in modo similare anche nei film pre-Liverpool, ricordo un episodio affine in Los muertos [2004], ma in Jauja la professionalità acquisita di Alonso sortisce un effetto superiore), così come alla sordità eterna del deserto risponde un lievitante ingresso musicale sotto le stelle, senza scordare la replica all’orografia del paesaggio, dall’apertura marina alle materiche pietre laviche, col clamoroso strappo verso l’oltre tangibile.

Che questo sia un film senza coordinate lo si può intendere da una piccola questione come la lingua parlata da Mortensen (danese in America Latina? Suona strano), e dal solito marchio stilistico dell’autore argentino che col suo approccio radicale ha sempre sganciato i suoi uomini dal mero ritrattino. Ma come accennato poc’anzi delle sfumature mutano il colore e, se si scende in profondità, si scova una materia nuova nella lezione di Alonso, una leva che permette di scardinare il lucchetto che incatena gli eventi. Se almeno inizialmente pensiamo di trovarci al cospetto di una rappresentazione storica sui generis (a tal proposito si potrebbe pensare che le visioni filmiche del suo amico Albert Serra [1] lo abbiano un po’ influenzato) con tanto di siparietti comico-sentimentali sull’asse padre-figlia-amante, una volta avvenuto l’allontanamento solitario di Mortensen il film si fa ramingo e dall’apparizione del cane in poi squaderna la non-collocabilità del luogo, non-Patagonia, poiché in prima battuta luogo celebrale e ce lo testimonia l’incontro con la vecchia donna che parla danese dentro la caverna-testa. Inaspettatamente c’è molto simbolo in questa porzione della pellicola, eppure non è nemmeno l’ultimo gradino, perché quello che succede nell’ultimo quarto d’ora alza di una tacca tutto il discorso e ci fa sprofondare nell’interrogativo. Ed è così che in seconda battuta non c’è più lo spazio della geografia e menchemeno quello della mente, anzi qualunque interpretazione psicologica sfuma dato che il padre si scoprirà essere soltanto la rotella di un altro ingranaggio. Potrebbe essere sogno, tuttavia la carta dell’onirismo non basta, è di più, è un regno indefinibile in cui non ci può essere alcuna guida, le cose attraversano il tempo (il bambolotto ed il cane) e lo spazio si sovrappone (le parole dell’uomo nel giardino che dice alla ragazza di essere stata via per un po’).

Jauja, il lavoro più compiuto di Alonso, si rivela quindi opera apertissima, un vero e proprio forum che, come nella tradizione che più preferisco, fa proliferare i quesiti lasciando a zero le risposte. E poi, dal punto di vista strettamente tecnico, non si può non riportare l’interessante variazione narrativa (è comunque il film di Alonso con la traccia di racconto più marcata, almeno nella prima parte, dove, tra l’altro, coesiste una sottile ironia) e la luminosa fenditura che dà su mondi ulteriori, ‘sta volta ben oltre la linea dell’orizzonte. Tutti indizi che confermano uno status autoriale semplicemente superiore.
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[1] La stima è sottoscritta da un corto di Alonso datato 2011 dal titolo inequivocabile: Sin título (Carta para Serra).

2 commenti:

  1. e torno casualmente da queste parti dopo the lobster e tu -scopro- sei tornato come un'aragosta-aussi.felice io.tarantola

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  2. Al momento è solo così: http://pensieriframmentati.blogspot.com/2015/09/come-gagarin.html

    Ciao!

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