martedì 18 aprile 2023

Cat Effekt

Era doveroso approfondire il duo Gustavo Jahn-Melissa Dullius dopo la visione dell’ottimo Muito Romântico (2016), e la prima produzione che si è stagliata dinanzi agli occhi del sottoscritto è stata Cat Effekt (2011), un mediometraggio girato a Mosca dove la coppia brasiliana, ad esclusione di una breve parentesi, non è presente in vesti attoriali, di contro viene seguita una ragazza nel suo girovagare per la capitale russa: freddo, metropolitana, tipo pelato minaccioso, amica/amante, altro tipo che legge un libro. Le similitudini con il film d’esordio si rintracciano nell’area formale, anche qui la tessitura del video è in costante deterioramento, graffi, sfarfallii, saturazione dei colori fino a virare in un negativo fotografico, inoltre sembrerebbe che ci sia una marcata manipolazione sonora, proprio che le voci dei soggetti sullo schermo siano leggermente fuori sincrono. Il nodo da sciogliere e che va affrontato subito è che se in Muito Romântico il dispositivo estetico era parte integrante di un tutto dotato di una rimarchevole grandezza, in Cat Effekt le cose non assurgono ad altezze roboanti ma stanno lì, in una zona di autoreferenzialità artistica, in sostanza dello spettatore non gliene frega un bel niente, la sua natura indisciplinata e anarcoide non consente alcuna lettura razionale, è “solo” un cristallo di cinema che rifrange una luce a volte abbacinante, a volte oscura.

Quindi, non proverò a dare un senso (alzo il dito solo per il ragazzo con il libro, ciò che sta leggendo è il film stesso?), preferisco mettermi buono buono nella scia di immagini che Jahn & Dullius costruiscono intorno alla donna, un mosaico che sa di sogno (un passante a caso urla “sveglia!” come il cowboy di Mulholland Drive, 2001) perché un’impostazione del genere, così stralunata, così incorporea, pare provenire, e/o dirigersi, in una dimensione onirica, e l’impressione si accentua per una serie di reiterazioni, di scene gemelle che si ripetono in un loop lisergico. La disintegrazione di una narrazione canonica è assolutamente ben accetta, il non voler raccontare nulla pur arrivando, inevitabilmente, a raccontare lo è ancora di più, perché si manifesta un’efficacia che rovescia i parametri del comune fruire, i registi potevano fare un film con una protagonista in cerca di se stessa nella grande metropoli moscovita, circondata da personaggi un filo inquietanti, impelagata in una vuota quotidianità, e in effetti hanno fatto proprio questo, solo che non si sono serviti di una banale addizione algebrica ma hanno sconquassato l’etichetta giungendo comunque ad un risultato che, se trova terreno fertile in chi guarda, apertura, voglia di misurarsi con l’alterità, lascia dei residui su cui riflettere, non tanto sull’opera in sé quanto sul metodo che la forgia.

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