venerdì 21 aprile 2023

Casa Encantada

Dopo A Casa (2012) e Casa Manuel Vieira (2013), un altro titolo nella filmografia di Júlio Alves contiene la parola “casa”: Casa Encantada (2018). Eviterò di elencare le assonanze tra i tre lavori, riscontrabili ma non decisive, per individuare nell’opera più recente un notevole distacco formale rispetto alle altre due. L’Alves che ritroviamo qui osa come non aveva mai fatto in carriera perché si avvicina ad un taglio autoriale che scollina il documentario, rifacendosi a certi visioni che hanno introiettato i bagliori delle avanguardie, costruisce un film che ha una struttura ordinata, quasi matematica (blocchi di racconti personali intervallati da sequenze che riguardano Alves stesso), che però non si presta ad una lettura agevole, questo si deve allo scontro che si attua sullo schermo tra le immagini e la scrittura. Noi vediamo principalmente delle ambientazioni collegate ai luna park, e quindi luci colorate, montagne russe, giostre e via dicendo, mentre i commenti che le accompagnano (proferiti in lingue diverse) non lesinano storie difficili, d’infanzia complicata, o comunque, in generale, non viene meno una malinconia diffusa. La distanza che si crea è colmata dal nostro sguardo che si affida ad Alves, è infatti lui, all’inizio, ad affermare che incappando in alcuni giochi abbandonati in un bosco portoghese ha rispolverato dalla memoria una sua compagna di scuola che voleva fare la ballerina, e tale ricordo del regista sarà l’unico che si ripresenterà varie volte con tanto di attrice danzante all’interno del montaggio.

Data la tendenza nel maneggiare il passato, Casa Encantada ha un discreto feeling con l’unica altra pellicola di Alves che non ha case nel proprio nome: O Regresso (2012), la differenza che tuttavia intercorre tra le due proposte, ed è una differenza notevole, sta tutta nel metodo espositivo. Nel film del 2018 non c’è quell’immediatezza che ti fa intuire dell’immenso scorrere del Tempo, Alves appare maggiormente interessato agli aspetti estetici e alla sostenibilità che possiedono in relazione al comparto narrativo, azione legittima che però ha delle conseguenze. Girando intorno ad un unico macro-tema (il luna park), ogni voce che ascoltiamo va a ricadere lì con briciole di avvertibile forzatura, nulla di realmente insostenibile, lo voglio sottolineare, ma, come dire, pur avendo compreso (o abbastanza compreso) i contorni del progetto, non si viene trascinati dal flusso mnemonico, l’operazione nel complesso rimane piuttosto ancorata ad una dimensione laboratoriale dove il regista ha voluto sondare delle vie di trasmissione da lui inesplorate, quella – presumo – ricerca di mormorii ectoplasmici, di consessi d’altre vite, resta oltre uno spesso vetro che non permette di fare un reciproco passo avanti, vediamo cose belle, ma non riusciamo a sentirle.

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