domenica 25 dicembre 2022

Per Ulisse

Dall’empia e santa Napoli di In Purgatorio (2009) Giovanni Cioni risale di qualche chilometro l’Italia per ritrovarsi a Firenze, nella “sua” Toscana, in un centro di socializzazione chiamato Ponterosso che raccoglie esseri umani raschiati via dal fondo della notte come ex tossici, ludopatici, schizofrenici e altra gente che in generale non ha avuto un passato facile al pari di un presente medicato un po’ da questo progetto di assistenza che (r)accogliendoli ha donato a tutti una nuova dignità unitamente ad una tenue speranza verso il domani che probabilmente sembrava perduta, e Cioni, insediandosi nel Centro per lungo tempo, guadagnandosi la confidenza ed il rispetto, partendo da riprese che in teoria non sarebbero dovute finire in un film, prendendo appunti e ascoltando grovigli e grovigli di storie, ha pian piano assemblato Per Ulisse (2013), un documentario che, come il titolo vi farà ben supporre, ha un afflato omerico perché nella macro-metafora che lo contiene c’è l’agiografia del naufrago per eccellenza, dell’uomo smarrito in un mare violaceo, del nostos eterno, di un ritorno a casa anche per chi una casa non ce l’ha più e per chi una casa, forse, non ce l’ha mai avuta. Ci sono così tanti Ulisse davanti alla camera di Cioni, soggetti ai margini della società che comunque, al di là di un percorso che si immagina, per i motivi più diversi, devastante e in alcuni casi autodistruttivo, hanno ancora un cuore che batte, per una figlia lontana, per un’altra morta, oppure per un’altra persona, e che sia all’interno di un breve segmento “di finzione” poco importa, sono, in sostanza, vivi, e il regista afferra gli sbuffi di questa vitalità che, seppur sghemba e sgangherata, resiste, infatti ritengo che Per Ulisse, oltre alla chiave di lettura epica, sia un film di piccole e sotterranee resistenze.

E mentre lo guardavo ragionavo sulla capacità che ha il cinema di trasmettere informazioni pur non avvalendosi di uno storytelling che illustra dalla A alla Z. Se ci pensiamo gli uomini e le donne che appaiono e scompaiono dal film non dicono granché sul proprio conto, certo, qualcuno si apre di più, qualcun altro di meno, ma per la maggior parte apprendiamo solo dei flash, che sebbene dolorosi e tragici restano i tasselli di un mosaico ulteriore che non vediamo né sentiamo ma che comunque aleggia, che si percepisce in una dimensione altra rispetto al racconto. L’alchimia creata da Cioni, non raffinata (ad un certo punto nell’inquadratura ci finisce un microfono che non doveva stare lì) e nemmeno autorialmente oltranzista, risulta una manifestazione di settima arte talmente genuina e al contempo professionale che trasporta lo spettatore in uno di quei stati fruitivi che sanno uscire dalla proiezione in sé, e grazie a ciò la sofferenza delle persone in video la si legge anche nei loro occhi, spenti, rassegnati, pimpanti, nervosi, o la si sente nelle loro voci, impastate fino all’incomprensibile, o in accenti che ne amalgamano indistinguibilmente altri, e la si vede nelle assenze, di denti, di un futuro a lungo a termine. Che poi non è di sicuro la prima volta che il cinema va ad occuparsi degli ultimi (ad esempio, il finale liberatorio con il bagno in mare, mi ha riportato alla conclusione di Nessun Fuoco Nessun Luogo [2014] altra opera dedicata a degli invisibili), è che quando lo fa, e quando lo fa bene, sembra ancora che ci sia la possibilità di credere in un valore meraviglioso, quello dell’umanità.

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